I Poeti di Narda Fattori
Di Augusto Benemeglio
1.Una forca per i poeti
I poeti ?
Sono scomodi i poeti figure/ da evitare domande sempre accese senza altare/ semantici silenzi e distrofie dell’io
Tutti i governi del mondo , diceva Apollinaire nel suo pamphlet “Le poète assassinè” , ammazzano almeno un poeta al giorno; all’eroe assassinato uno scultore innalza “una statua di nulla”. Del resto anche oggi , questi falsi profeti di metamorfosi assurde , dalle visioni primordiali, con l’impulso di oscure visioni, – i carboni del cielo, il Graal , le gole delle scimmie, le Upanishad, la Bibbia , proclamatori di angoscia e del grande dolore assoluto , questi poeti che si trovano ogni mattina al bar con la bocca/ piena di sassi/ col dolceamaro del primo caffè, volentieri s’impiccherebbero sulla pubblica piazza così, tanto per ammazzare il tempo e la solitudine , per uno spettacolo antico e sempre nuovo come la morte. Chissà che non venga varato un nuovo progetto di legge per erigere una forca su tutte le piazze dei paesi , un bel capestro lucente che faccia crick dei loro colli angosciati ed estingua la sete di libertà di questi poeti che non fanno altro che piangere i fantasmi di fumo e d’armonia , di lamento dei loro ricordi :Conosco la memoria dei muri/i pesi che gravano/ era solo ieri che cantavo /nei cortei di maggio/a gota piena a capelli sciolti/ so che tornerò ad incontrare/ quello che foste/ amici di pizza e di birra
2. Montale e la Cveteava
“I poeti” è il titolo di una lirica di Narda Fattori, una di Gatteo, tra il Rubicone, Pascoli e Fellini , una romagnola non allineata, cresciuta a pane e poesia , che si infiamma per nebulose e oceani , ma anche per un fazzoletto che cade, un fiammifero che si accende, un lichene, la presenza del muschio e della gramigna e l’oggetto più insignificante che le serve per slanciarsi nell’”ignota infinità” dove rilucono i fuochi delle molteplici significazioni; ma anche per entrare nei crepuscoli dell’inconscio. Narda è una che fa poesia di silenzi e ombre segrete , silenzi talora cattivi, e ombre sporche, dovremmo dire anche noi, come hanno annotato altri critici. Ma il tema , alla fine, è sempre lo stesso, amore e morte, e nostalgia del mistero della vita, della giovinezza, dell’”essere o non essere” . Come Amleto, come Trakl , anche lei talvolta si mette a cercare “angeli dalle cui palpebre gocciano vermi” , e come il primo Montale “della storta sillaba secca come un ramo” , si dimostra una che non cerca consolazione e lacrime dalla poesia , ma piuttosto il destino della verità , per quanto dura e spietata possa essere . E’ un tipo che vuole andare avanti , approfondire, bruciarsi in questo gioco che diventa vita . Predilige tutto ciò che si fende, si spezza, che è rigido, duro, “virile” , pur nella sua stupenda femminilità , e , non a caso, ama molto la Marina Cveteava, una donna poeta di cui lo stesso Pasternak disse che era immensa e tempestosa , avida, impetuosa, rapace , che tendeva alla finezza e alla perfezione e aveva più intelligenza coraggio ossessione, fierezza , nobiltà , ( e palle) di mille uomini messi insieme, e che si espose sempre più, col suo orgoglio di donna, nel gioco al massacro , per sé, contro sé, contro la società, e contro la sua epoca .
3. Rovine
Narda ovviamente non è Marina Cvetaeva , ma è anche lei – come molte poetesse dei nostri tempi , che formano una griglia culturale tutt’altro che salottiera, anzi potremmo dire di “controtendenza” , che vanno contro corrente e risalgono i fiumi come i poveri eroici romantici salmoni , che gettano una sfida alla consuetudine , alle forme accettate, un atto di rivolta e di coraggio contro una società fatta di rovine dello spirito , più che di crisi economiche. Anche lei va alla ricerca della emozione artistica in un mondo confuso , un universo in esilio , una società in liquidazione, che non merita più nessun canto di passeri solitari , nessuna tendenza verso l’infinito leopardiano. Narda sa benissimo che la poesia non è scrivania, e tanto meno carta ; la poesia non più evocazione o suono solenne , né attesa che gli dei ti suggeriscano i primi versi . La poesia è una camicia di forza, una bianca camicia di stelle di fuoco che ti arde sulle spalle , ma anche un mare di petrolio , un mare di convulsioni di meduse e gabbiani incatramati. ” L’anima lirica – diceva Ortega de Gasset – attacca le cose naturali , le ferisce o le uccide . La poesia tende verso l’alto , ma anche verso il basso, dove crescono semi fiumi e vermi ; è fatta di cose nobili e banali. E’ deiezione, diceva l’ultimo Montale, ed era provocazione, ma fino ad un certo punto . La sua è drammatica , ma anche ironica , amara con versi pieni di risonanze taglienti, di forbici che tagliano melodie degli occhi , una poesia che sembra facile e scorrevole , ed è invece difficile, “poiché tu conosci solo un mucchio di immagini infrante…ma su questi frammenti ho appoggiato contro le mie rovine”.
Anche Narda parla di “rovine “. Nella tensione dei contrasti, negli echi semantici ungarettiani, ci dice che fra rovinosi stracci s’è persa la coscienza /che fummo di pianto e d’amore
4. Il nome di Narda
Ho cercato il nome di Narda ( ma il suo è probabilmente il diminutivo di Leonarda), e ho trovato una città portuale immaginaria fatta di “germogli di vento” (..:c’è sempre qualcos’altro dentro/ semi di pensieri bagliori di emozioni
lividi e giunture che scricchiolano) , e poi una danza orientale di Siva che rappresenta il continuo divenire cosmico , la danza che crea l’illusione . Ha con una mano il fuoco della conoscenza spirituale e con le altre mani scandisce il ritmo con i gesti rituali ; e sotto i piedi schiaccia un nano che è il simbolo dell’ignoranza. Anche la sua poesia ha un che di danzante, di onda su onda che ti giunge dal nulla, di ombra su ombra offerta alla miglior luce . Ma c’è anche una “Narda” che è uno strumento di misura, un regolo, una squadra , un calibro che misura il petalo di rosa; una Narda che sa di geometria ; e , infine, qualcosa di simile, per assonanza , che significa “moneta”, la fredda moneta che si metteva in bocca ai morti per pagare a Caronte il traghetto dell’Acheronte. (“Siamo frutti di vento, ciottoli del rumore, cenere di stelle!” e lo si faceva come ultimo gesto pietoso.
5. La Fenice e Dante
C’è, invece, il più comune nardo, una sostanza profumata, che ricorda la Maddalena e la sua unzione di Cristo , ma anche uno degli aromi con cui la Fenice , vicina a morire , cosparse il proprio nido, come ci racconta Ovidio. Rinascerà ancora una volta l’Araba Fenice dalle proprie ceneri? O , piuttosto, quei profumi, quelle essenze sono ormai per una bara definitiva, la moneta per Caronte?: Siete il muro che respinge e chiude /l’orizzonte tondo delle colline e sorride /lo spaventapasseri fatuo sul campo mietuto
Trovo che certe sue metafore siano classiche, essenziali, musicali, hanno un che di violino, un che di Caproni più che Fortini. E in tema di toscani c’è anche Nardo ( il maschile di Narda) di Cione, un pittore fiorentino del Trecento che dipinse il giudizio universale nella cappella Strozzi di Santa Maria Novella , a Firenze, il Paradiso e l’Inferno di Dante , con il volto del poeta in atto di preghiera sulla parete di destra. Volti che in realtà sono maschere, come quelli di Narda, che usano parole di linguaggi molti antichi, che ti vengono incontro , a volte , con un orrore incomparabile. “Sarò tutti o nessuno. Sarò l’altro/che senza saperlo sono/… Erbe di semplice botanica, /animali un po’ diversi,/dialoghi con i morti”. Sembrano versi di Narda, sono di Borges.
6. Parole nude
Ma riecco Narda , coi suoi versi che “ scivolano sui gradini della vita”, echi talora dissonanti, cocci di un immenso vocabolario ormai naufragato nel kisch di tutti i giorni , nel saldo , nella liquidazione della nostra asfittica civiltà , ecco Narda che si alza il mattino per ricomporre i cocci di quel vaso rotto, ricomporre quel mosaico strano , erigere quell’ultimo monumento d’umanità, più duraturo del marmo e del bronzo , e lo fa in silenzio , quando tutti gli orologi di mezzanotte le doneranno un tempo generoso, per riunire gli spiriti evocati: eccola insieme a tutti gli altri fantasmi poeti che “Testardi tornano a seminare fonemi/ dentro i solchi e aspettano che germoglino / parole vere – verginalmente nude”.
Roma, 28 gennaio 2012 Augusto Benemeglio
I poeti
Come sarti prendono le misure alle parole
prediligono le forme ampie a matrioska
c’è sempre qualcos’altro dentro
semi di pensieri bagliori di emozioni
lividi e giunture che scricchiolano
un apostrofo o un’elisione? Un’apocope?
A quando una sincope? Una discrasia?
I poeti scivolano sui gradini della vita
e la guardano da sotto in su come i caduti
lungo i nervi brividano armonie discordi
pure solo loro fanno di un crepaccio
una meraviglia di natura e così di un fiore
sono una malattia che ci fa umani
delfini dentro un mare di nuvole chiare
e venti di maestro e alluvioni – ci perdono
la vita spesso e anche la testa costretti
al mastro della partita doppia dove
le colonne fanno il pari ( mai che così fosse
nella vita) – a declinare rosa rosae
e un requiescat di sciroppo per la tosse
amano troppo s’incapricciano del nulla
sono un po’ folli – dicono
conosco chi raccoglie ragnatele per predare
il bene che sempre sfugge o il male che
li tortura. Sono scomodi i poeti figure
da evitare domande sempre accese senza altare
semantici silenzi e distrofie dell’io
distonie ? Testardi tornano a seminare fonemi
dentro i solchi e aspettano che germoglino
parole vere – verginalmente nude.
(inedita)
da “ Le parole agre” editrice L’arcolaio 2011
*
Gli arrossati tramonti senza albe a venire
a vedere senza lamenti cadute senza rete
siete il muro che respinge e chiude
l’orizzonte tondo delle colline e sorride
lo spaventapasseri fatuo sul campo mietuto
fra rovinosi stracci s’è persa la coscienza
che fummo di pianto e d’amore
con altri dividemmo terra e pensieri
lo schianto e la tesa mano a sorreggere
i passi a venire.
Non passeri solitari sul campanile.
Non nubi Non sere. Non malattie di cuore.
*
Io non so fare il pane né seminare il grano
io non ho sapienza delle cose che contano
non ho la costanza dell’acqua il gusto
dolce della mela – io non sono tentata
non ho tentazioni- al mio poco mi stringo
e non è niente sì non è niente ma non lo temo
non mi fa male questo niente non trafigge
a culla si posa attorno alla mia carne
e mi para dai lividi dalle lame e dalle tarme
così che il mio pensiero non si roda
non si bucherelli e possa far passare
l’aria infetta che imputridisce attorno all’uomo
non so seminare i fiori ma coltivo sinfonie
di colori con steli e sepali e petali e profumi
sono antidepressivi naturali coltivo pace
almeno una tregua e sia fatto un nuovo
giorno con i colori di questo giardino.
*
La disarmonia dei gesti quotidiani
– ma quanta armonia nella carezza
di una madre sulla carne tenera del figlio-
s’infrange sull’armonia dell’azzurro
che riveste i colli con il loro abito verde
la disarmonia è instabile e selvaggia
la signoria è dell’amore che frulla
sui rami e fa di due carni una adattate
e perfette –il cielo ha un riverbero
come uno spino di luce sull’iride
e siamo corvi bellissimi e savi
non gracchiamo più cantiamo nei cori
e ascoltiamo un silenzio musicale
di stelle lontane dalla creazione
di piedi leggeri su sentieri erbosi
e lasciamo che qualcuno perda la ragione
ragionando sulle sinapsi e la dura madre
il callo dell’encefalo l’ antico limbo
della disarmonia facciamo una veglia d’intenti
di noi che ci tocchiamo senza farci male.
*
Mai la civetta mi cantò il destino
io rubo a mazzi i raggi di sole
per scaldarmi sottopelle i giorni bui
non ho visto il volto della nemica
la sento a fianco attratta dai miei passi
e non so quando
mi farà lo sgambetto e saranno musica
le note e le parole vuoti i cieli
senza presa e nuda la terra che amo
gli amati scagliati a immemore distanza
le afflizioni sedate i desideri
scomparsi in un rantolo di fiato
che appena appanna lo specchio sulle labbra.
Non chiamatemi a voi
lasciatemi l’immenso torno a torno.
• da “Il verso del moto” Tratti editore 2009
Stamani non chiedo nulla
né cerotti sull’abrasione
né scriminature fra eventi
dentro lunghe elastiche albe
con le mie mani che stringono
una parola sola
quella che ho sempre mancato
che dice di me
del mio esistere del mio stare
ora qui dove una fiamma
nel camino vacilla
e tutto il resto è scuro
immensamente oscuro
Sulla scrivania i libri restano
dissennate grafie
sapienze di menti che allenano
al dolore a questo dolore
nei giorni che hanno scialato
il sole e si affidano ai caloriferi
mancano lampade e cerini
che non compro più
poi che hanno tremato al brivido
dell’aria scura
dove ho preso confidenza
con la resistenza all’aria
che ha uncini alla dita
*
Era un giorno qualunque
quando mi sono trovata la bocca
piena di sassi
col dolceamaro del primo caffè.
Afasica senza parole e grafie
mutate in scrigni di ottone
smarriti i noccioli con il seme
per la fioritura a venire…
da margine a margine
sulla dirittura delle lancette
puntuto e puntuale
cerco il segreto delle parole
il luogo dove si incontrano
tutti i luoghi
e spalanco le braccia
per abbracciare insieme
tutte le nostre lame
si trasformassero le sillabe taglienti
in un nuovo neuma
o in un’armonica a bocca
per un valzer musette.
*
L’ ombra degli assenti
nella penombra della sera
proietta forme scure
contro il soffitto bianco.
La scontorno stupefatta
posso passarci dentro
nidificare nel vuoto quieto.
Sull’artrosi delle spalle
eseguite tutte le condanne
porto pesi piume affetti
piccole esistenze da nulla
un buco- un mondo intero
e tu sorella tu fratello.
Allora voi restatemi presenti
col profumo dei gesti noti
contro il gran rumore del mondo
che va peripeziando sgembo
senza una meta nota
e sgomma romba ciarla
cacofonie in conflitto
antifone del tempo.
*
Oggi devo preoccuparmi
della dicondra che cresce
lenta e si fa sopraffare
dagli infestanti
tenero muschio
e prepotente gramigna
avrei preferito occuparmi
di queste parole rinnovarne
il suono la semenza
balenò un fulmine
annerì di fuoco senza fiamma
il gelso sopravvissuto
dai tempi dei bachi
cauterizzo malamente
ma senza deflettere tengo
tutte quelle radici
quante! che come quel gelso
se respirano terra vivono
all’aria rattrappiscono
come mani che invocano
e restano vuote.
*
E brivido sentendo
prossima la res nullius
ho bisogno di denti forti per mele sode
e vista d’aquila
per abbandonare al cielo di settembre
la cantilena dell’aia di giugno
“Lucciola lucciola vieni da me
ti darò pan del re
pan del re pan della regina
lucciola scappa – non venirmi vicina”
Ma tu figlio mio
racconta a tuo figlio
la storia delle mani e sarà
un principe saggio come un contadino
saprà le ore e i cicli e le stagioni
della semina e del raccolto
saprà che le cose cambiano di posto
anche di natura ma non scompaiono mai
e la luna si beve i sogni
si fa piena scompare
e poi ritorna.
*
Siamo un accidente che il tempo
ha sostanziato in forma
con qualche differenza di genere
siamo capitati per tessere
una ragnatela di pazienza
ma il tempo s’annida
in residenze precarie
costruisce con sabbia.
Agire con le parole
è tornare a un infanzia di grilli
e di lucciole sull’aia di giugno
e con le mani fare i figli
i pensieri non sanno darsi pace
in un corpo di latta conformata
don chisciotte in lotta
contro i mulini a vento
e plaghe e dulcinee.
Agli angoli di strada
tanga sotto il lampione
contrattazioni e ripartenze
senza focolare.
*
Se ti lambisce un furore
di gialle ginestre
là sulla roccia con poca terra
per radici serpeggianti
verso acqua che scivola su pietra
acqua che non si raccoglie
in limpida polla
fonte di tutto il futuro
il sasso ti sfugge dal piede
pensa
a quanto pesi tu sulla montagna
a quanto pesa la montagna senza te
che la nomini e la fai esistere
con le ginestre e il ghiaccio
e fai creare il mondo
da una piana di licheni.
Ma sarai in fuga come la lepre grigia
il giorno della volpe
che lasciò la tana.
*
Fremiti d’ala sotto la gronda
le superstiti rondini
tornano al nido
e garriscono al giorno che muore
nel languore di maggio
A noi ci tiene ancora vivi
qualche tormento
un lavoro incompiuto
siamo incompiuti noi
che non sappiamo come sanno
le rondini tornare
e vanno in stormi lieti
nella nostra inesausta solitudine
nessun’ ala ci scalda
un coro sconnesso e stonato
s’infiltra fra le pieghe della mente
torce le sinapsi non tace mai
non tace mai…
*
Albe ridenti in guizzi di luce
alberi di bosco
di parchi- giardini – di viali cittadini
cipressi troppo alti dalla testa china
querce nodose olmi ombrosi
e abeti e pini mughi e silvestri
signora magnolia quasi superba
alberi della mia infanzia
l’umile antica robinia con le radici
sulla sponda del rio
e l’alloro
che profumava un angolo d’orto
la vostra vita volata in ceppi
in uno stridio di passeri innocenti
al clamore di una rosa di pallini.
Il quieto verde che le fronde
donavano al parlottio del vento
è squarciato dal rombo
che ora solleva polvere e piombo
dimentico dei ritmi dell’ulivo
che cresce lento
e la sua pace regala
senza rumore.
*
Conosco la memoria dei muri
i pesi che gravano
era solo ieri che cantavo
nei cortei di maggio
a gota piena a capelli sciolti
so che tornerò ad incontrare
quello che foste
amici di pizza e di birra
sola
come una dimentica anguilla
a nuotare verso
quale la foce
quale il ruscello
Mi ricordo leggera
a tratti corale senza pudori
la vita che respirava dai pori
e volava … volava
come quel cardellino
a cui hanno sparato
all’alba di ieri
una rosa di piombo
*
A schiena curva la vecchia Malvina
con le borse della spesa
vorrebbe un giaciglio di pace
e invece Lulù le si scaglia contro
abbaiando dietro il recinto
a casa l’aspetta il silenzio
dei morti per i requiem da dire
tutti in fila in foto
sulla mensola della credenza
con i bicchieri buoni
stira a suo figlio la camicia
e lui se ne va chissà dove va
e stira Malvina col televisore
acceso dove la telecamera
riprende la scena di una guerra qualunque
sul prato il morto ammazzato
nel vicolo la donna violata.
Si annida fra le grinze del volto
una lacrima come da destino
prescritto.
*
Per gradini scoscesi
per rampe e per erte
per selve l’attrazione del tempo
le ginocchia abrase
mai penitente mai renitente
animale a sangue caldo
non circoscrivibile a un cristallo
al vetro forse di sabbia riarsa
di silicio
anche il dolore
scavato in una tana sulla soglia
compagno non più a ridosso
e amo questo cielo grigio
che promette acqua
contro l’arsura
delle mie bisacce vuote
pettirosso fra rovi
nell’inverno della neve
e briciole magre
sul davanzale.
*
A fine corsa giunta
mi solleverà l’amore
con braccia salde
dentro una nicchia di sole
sotto la terra bruna
e sarò il vento e la neve
il fulmine e l’acqua
quieta signora fervida
non avara non frivola
avrò l’abito nuovo
per una festa senza data
da sempre programmata
mandorla dal gheriglio amaro
rifiorirò sull’erba
tutto l’amore avuto
in primule e fontanelle
l’amore per amore …
l’amore
*
Perché al finale di partita
non venga a mancare
nessuna chance
sul tappeto verde lancio
le ultime fiches
gioco senza ruoli- giocattoli
di rischi perduti.
M’importa invece
starci in questa attesa
senza cestinare
la lunga fila degli idilli spesi.
Questo mi importa
e non sopporto il lamento
dei tigli al vento
il tintinnio del cristallo rotto
l’indaffararsi a tenere
sollevata la polvere.
Mi gioco questo finale
con l’entusiasmo dei bambini
il terrore tenuto a bada
da decenni di convivenza.
Sarà un’uscita in silenzio
senza sbatter d’imposta
composta e nuda.
dalla silloge Canzone nell’antologia ultima dell’editrice Fermenti 1011
Mi scrivo una canzone per passare il tempo
per consolare questo giorno stanco
e stono a gola piena e la canzone ride
della mia voce e del mio obiettivo
che obiettivo non è non ho cane né mirino
né colpo in canna non so centrare
esattamente lì dove sta il male
che sta ovunque e aspetta sul posto scalpitante
come i bambini attorno al venditore
di zucchero filato nelle fiere
mi manca il ritornello e lo voglio andante
con le note che saltellano sul foglio
non voglio imbrogli voglio un ritornello
popolare alla Gabriella Ferri
che sia anche uno scongiuro una preghiera
una ninna nanna per un sonno buono
andante come un ballo in piazza
una tammurriata un lancio di coriandoli
dal balcone alto io voglio cantare una canzone
che sappia di pane e olio di buona terra
e di amore corporale.
*
Canto la mia bellezza che è volata
con le nuvole e le farfalle e più
non torna canto l’amore l’amore
canto che ha mille storie e nessuna
voce e i cani muti i gatti lievi
i tempi ammalati che contaminano
i giorni le viole del pensiero
io canto voi amici che tessete
l’armonia e siete il mio ritornello
la voce che non s’appende al muro
la libera voce la voce che stona
nella corale dominante e fiera
si libra oltre le miserabilia
di questi tempi miseri e ammalati.
Canto l’essere mio vivo che non tace
e non cerca riposo né assoluzioni.
BIOBIBLIOGRAFIA
Narda Fattori è nata a Gatteo (FC) e ivi risiede in via Garibaldi, 70 ( cap. 47043). Ha compiuto studi di linguistica e si è impegnata come formatrice per l’IRRSAE ( ora IRRE) e come autrice di libri di didattica per diverse e qualificate case editrici. Ritrova l’ispirazione poetica e narrativa , ha partecipato con successo a concorsi innumerevoli, successivamente agli anni novanta ricavandone successo e premi , ha pubblica diversi libri e partecipa alla compilazione di antologie. E’ redattrice del sito VDBD.
LIBRI DI POESIA PUBBLICATI
Se amor parla, Autore Libri, Firenze 1995,
E curo nel giardino la gramigna, Ibiskos (Empoli) 1996, ( premio editoriale)
L’una e i falò, Il Vicolo, Cesena 1998;
Terra di nessuno, Lucca, 2000 (Premio editoriale “Olinto Dini” di Castelnuovo Garfagnana);
Verso occidente, Fara editore, Rimini 2004;
Cronache disadorne, Ed. Joker, 2007 , Novi Ligure ;
Il verso del moto, Moby Dick editore, 2009 , Faenza.
Le parole agre, editrice L’arcolaio, 2011
Dentro il diluvio, edizione puntoeacapo, 2011 , Novi Ligure ( premio Editoriale Astrolabio di Pisa)
È presente con una silloge di dieci poesie nei volumi antologici Voce Donna 1997, Voce Donna 1998, Voce Donna 1999, Il Vicolo, Cesena;
-nell’antologia Santarcangelo della poesia, Luisè editore (RN), 1998;
– nell’antologia Il novecento etico-religioso a cura di Vittoriano Esposito, Bastogi editore;
– nell’antologia Farapoesia con la silloge A che punto è la notte? , Fara Editore 2010 , Rimini;
– nell’ antologia Creare mondi con la silloge De profundis , Fara Editore, 2011 , Rimini .
-con la silloge Canzone nell’antologia Dentro il mutamento, Fermenti editrice 2011
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