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Paolo Pistoletti: “Al di qua di noi”

10 luglio 2023

dalla prefazione di Fabio Franzin:

[…] … in Paolo c’è la voglia, e il dolore, di far affiorare le sue parole dalle esperienze concrete, vissute nella propria carne, piuttosto che, da pur profonde, ma sempre algide e insufficienti, letture, per trasferire sulla carta una poesia che parli dell’umano all’umano.

[…] La raccolta è, apparentemente, scritta in una lingua piana, o appena saliscesa come le sue colline La scrittura di Pistoletti non cerca di accalappiare il lettore con giochi di parole o versi ad effetto però è disseminata di invenzioni linguistiche notevoli (cui qui se n’è riportato solo qualche accenno), e di un mood, di un basso continuo che tiene la voce, trepida e quasi tremante, dentro l’aria di un inverno dell’anima, fra boschi e rotaie, neve e ze memorie e mancanze.  (Fabio Franzin)

Al di qua di noi

Al di qua di noi – Paolo Pistoletti – Arcipelagoitaca ed. 2023

alcuni testi scelti

[da dietro al sole]

Rami che fanno i rami, foglie
le foglie.
Negli spazi rimasti dentro
come bambini
che ci vegliano dall’altro capo del sonno
che ci fanno ridere il sole
di qua dai disegni.
Di chi come te
non se la prende più, di chi come te
non hai più lacrime.
Adesso che in nessun posto sei
porta
i fiumi i prati negli occhi, la terra
porta della morte
il cielo della vita, l’aria porta
della nostra
casa da sogno.

*

[dalla terza croce]

Dal tuo ritratto
ti sei
fino all’ombra.
Come ogni albero sogna
altri alberi
dall’altra parte del mondo.
Ricordati di chi quando sarai
continuaci da dietro la terra
la paglia la pietra
la nostra casa una casa sempre più grande
in fondo agli occhi
di noi bambini dove ci nasconde la nostra
stanza di qua
come una vita immensa. Dal bianco del tuo già
ma non ancora, ricordati di chi
sta da qui
dentro questa
strana presenza, che noi
ti siamo.

*

Ho comprato un campo con mio fratello non so
quanti anni fa.
Un campo a metà si diceva
che lo facevamo per i nostri figli
ma va’ a capire se stanno così le cose.
Un campo più in alto
delle nostre case
ecco guarda i tetti.
Quanti metri fa
un ettaro è impressionante
certo almeno questo adesso
è più chiaro da quassù.
Tanto che se fai diecimila passi
tutto intorno credo quasi
che ci sei. Ecco io credo
acqua fuocherello fuoco così tanto
che quasi ci sei.
Ho comprato un campo ma quanto
tempo fa non so
se ci sei. Un campo a metà
quanto fa un ettaro diviso due.
Cinquemila passi in meno
che io credo se tu tanto
non ci sei. Da di qua
di questa terra ho comprato un campo
che non so. Nel mentre
avrei voluto piantare qui
la nostra tenda tu
che continuerai
a trovare strano che non c’è
dimora. Nessun fondo
nel per sempre mai. Ma solo
un campo d’erba che ti sfiora
e non ti sfiora mentre ci sei
e non ci sei.

*

___________________   davvero con mio padre

Dai nostri maglioni portati
come allora davvero da lì
come un tempo dalle spalle
fino a dentro che io mi ricordo di noi due
in auto
le quattro stagioni di Vivaldi
ma di più l’inverno in fondo
a quell’anno che tu sei
al volante.

L’autovox che ci faceva girare
il nastro del concerto
il nostro essere eseguito
nell’esserci del 1980.
All’interno già tutto
intorno alle fiancate
a imperversare come gettati lì
dal sempre.

Come in un punto da quella parte
per orchestra dopo
il quartetto in fa minore
la luce che proviene dallo schermo della radio insieme
al suono. Dal buio dei legni
a ogni strumento dagli alberi
ma agli archi di più
all’orecchio che tendevamo

sempre più fino
dentro la macchia fatta così a cassa armonica
di pino del nord. Colla nostra
fiat 131 diesel che vibrava
dentro fuori dalle portiere
toccando certe corde
un andarsene larghissimo
come la neve con quell’aria
che ti ricomponevi
una volta uscito dal nostro abitacolo.

Non ancora gelo ma quasi gelo
ma quasi notte già in pieno
solstizio. Poi per il resto non lo so.
Non capivamo nulla dei dettagli certo
comunque un altro io si sentiva
che era la sua tonalità che anche se
in chiave diversa tutto era stato
accordato già.

Una scala di note come corvi neri via dai rami
sullo sfondo bianco un pentagramma quasi vuoto.
Quante crome in volo dal basso
di clavicembalo all’assolo.
Ma non si pensava ci fosse rimasto
così poco per chi
come te
dicembre era
un brano in crescendo, la partitura dopo
la requie, il tuo movimento
fino al finale del bosco in piedi.
Qualcosa, come un ultimo applauso.

*

Inseguire il grande sogno della nostra casa
dalla nostra vecchia casa
ogni sera.
Abitare a ridosso della stazione da una vita
da una vita. In fondo al sonno profondo
della pietra del ferro del legno
della ghiaia, dall’appartamento fino all’officina.

Come due volte ombre
rivedere
mio nonno capostazione
con mio padre ferroviere con mio nonno
che un tempo ci passava a trovare.
Si può viaggiare anche così
lui sembrava dire, lui sembrava dire.

Dal di qua
del dormire come quasi morire, dal dimenticare
dal destarsi al ricordare
dal modo come rientrare
prima di uscire ancora
dalle proprie mura.
Per poi ricominciare.

*

Dentro ogni treno che parte un altro treno
ci ha fatto restare
un sogno la vita.

Dentro un altro diretto
da quale regia
in cabina da dietro
il dormiveglia. Un tempo che si fa spazio
in testa circolo
occhio artico dal centro
di Hannover. A fare da schermo
a un retroscena. Dalla fine
dei maglioni e dei jeans
come andavano allora.
Dal fondo dell’inverno
tra noi e noi.
In ogni fotogramma
ripercorsi da ogni io

come in un lungo lentissimo metraggio.
Ogni volta riavvolti
in trama noi. Una carrozza
tutta finestre e corpi sui vetri
così sottili da ritornarci indietro
sempre da qui
dal didentro dappertutto

siamo qua
un riflesso
fissi dentro uno sguardo
che ci guardava
come gli angeli nei film.
Siamo qua che si vedeva e non si vedeva
il cielo sopra Berlino
senza un riparo
dalle nostre fattezze che non siamo, ovunque, mai.

*

Paolo  Pistoletti

Paolo Pistoletti lavora nella biblioteca comunale di Umbertide. Terminati gli studi in Giurisprudenza e in Teologia ha continuato ad approfondire i contenuti di alcune correnti spirituali d’oriente e d’occidente, ampliando, allo stesso tempo, la sua ricerca poetica. Nel corso degli ultimi anni suoi contributi, sulla poesia e la parola, sono stati pubblicati da Fara Editore e dalle Edizioni CFR. É stato condirettore della collana di scrittura, musica e immagine “La pupilla di Baudelaire” della casa editrice Le loup des steppes. In poesia ha pubblicato Legni (Ladolfi Editore, 2014 – Premio “Oreste Pelagatti” 2015), il libro d’arte Borgo San Giovanni (Fiori di Torchio, Seregn de la memoria, 2018). Al di qua di noi (Arcipelago itaca Edizioni, 2023) è la sua ultima raccolta.

Paolo Pistoletti

28 luglio 2014

paolo

 

 

da  Legni, Giuliano Ladolfi Editore, 2014
(Prefazione di Marco Beck)

Ultima visita

C’è una poltrona di pelle
che regge appena.
Sarei venuto a dire delle cose,
a trovare un appiglio.

Ma tra noi qui
c’è una stanza
che non ne vuole sapere.

Come niente l’aria
e la luce oramai.

Poi ci si aggrappa.
Come se all’improvviso
volessimo stare
come se finalmente
di colpo si fosse.

 

 

Imbronciata

Dal parcheggio alla casa dei nonni
saranno duecento passi. Mi tieni
imbronciata la mano. Sento
che all’abbraccio del sangue sfugge
la luce quando non è nei tuoi occhi.
Lo so che resti accesa
dietro quello sguardo da lupo
e là mi conduci ancora.
Dicono che la retina fissi così per sempre
quelli che arrivano da scie invisibili.
Padre e figlia
insieme
dovrebbero gridare
strappare a quattro mani le bambole
quando le cose vanno via
non avere pace
non dare senso troppo in fretta
al vuoto perché noi
si sta qui
come chi vede la brace nell’aria.

 

 

Bosco

Come un bosco è cresciuto mio padre
giorno dopo giorno.
Le radici ora circolano
dove non sono mai stato
nella bocca nera della terra.
Il cuore del legno viene da lontano:
lui qui c’è arrivato prima della guerra.
Ma poi gli anni dai cerchi
dai rami sono passati tutti
per la linea delle mani
e foglia dopo foglia
la linfa nelle vene
ha ripreso la via
della luce che non si vede.
La sera del derby di Milano
un’onda accesa da dentro
l’ha portato via dalla poltrona
come un fiume contromano.
Solo dopo il medico ci ha detto
che c’era nato
con quella voragine nel petto:
e da allora qui intorno
aspetto sempre di sentire il tonfo
la fine di questa fame senza fondo.

 

 

Legni

Non mi ricordo più quante volte si muore,
quante stagioni di legni
ci pesano sulle mani
prima di rovesciarci il cuore.
All’ospedale di Careggi c’è il bianco
delle mura che in mezzo ci passa
chi non ce la fa più a stare qua.
Quelli che invece tornano
nelle vene hanno sentito
tutto il risucchio che viene dagli aghi
dal tubo della flebo
fino alla luce del neon
dove a un certo punto
uno non è più niente
tutto lì nel mentre,
tanto che a sorpresa
non avendo più materia
si smette di tremare
senza cassa senza risonanza
la mancanza ricompone tutto
porta a zero la distanza.

Da bambini si arriva ogni volta
al momento giusto
come una bolla al centro del lago,
la memoria poi torna dopo
quando un giorno d’estate
il sole spacca le pietre
e allora si esce.
In corsia si dice che un giro
moltiplicato per sempre sia l’eternità.

Firenze, ospedale di Careggi, reparto di rianimazione, aprile 2001.

 

 

Quattro mura

Abbiamo millenni e ci somigliamo appena
un profilo sottile un gesto e basta
forse una sagoma alla finestra che passa.
E intanto ci diciamo che va bene
che non fa niente che non fa male
che la notte ci lascerà passare,
ancora solo qualche ora che pare non scorra
così lontana la serranda ferma
l’alba che non s’alza
solo un buio abbassato. E noi
che puliamo tutto il tempo
come panni smessi
i vetri pur di guardare bene
avanti ancora di un passo
come se dopo gli stipiti di casa si svuotassero
già uno di fronte all’altro
come queste quattro mura
come dentro il bianco quando finalmente ci vedremo.

 

 

Vecchio

Dicono che quel vecchio non ci stia più tanto con la testa,
io non lo so ma qualcosa davvero gli manca
perché in strada pare una giacca vuota che passa.
Ma poi come se si fosse tutti immensi all’improvviso
ti saluta che pare vento sulla faccia e allora sì che sulle spalle
senti il passo che s’allunga
la distanza della spanna che separa.
Una volta mi hanno detto che per colmare la misura
bisognerebbe avere un occhio perfetto
raggiungere il punto esatto
guardare dritto per dritto,
come da bambino quando tu mi prendevi in braccio
e allora dopo mi sentivo un altro
come l’ultimo avamposto prima del gran salto
lassù finalmente
a cavalluccio sul collo
che adesso non mi ricordo di un trono più alto.

 

Bentornata

Come un fiume mia madre scorre piano
una dopo l’altra le foto sopra al tavolo
risale i ricordi fino al fondo dell’argilla.
E sembra più bella adesso che la guardo
un’impronta sulla sedia che non sa niente,
poi la voce che si incrina con tutti quei nomi
come acque che si rompono dopo il bene.
Che a dire il vero si sperava che dopo il flash
cascasse il velo dal letto di magra
che in un lampo fosse nudo il dolore.
Invece non si vede uno scatto che possa
fissare qui il lenzuolo di chi ci lascia
solo sulla carta che vedessi mamma
quello che succede mentre parli. Che guardalo laggiù
il vecchio lido dove una volta dice che si ballava
con tutti quanti quelli che va a sapere
adesso quale buon vento se li porta.
E poi noi che chissà come faremo
che non bastano più gli argini a tenerci qua
l’erba che sale dalle sponde
per i crinali fino al monte
dove il babbo ruzzolava come un matto
a rompere i pantaloni a chilometri
e poi una valanga di risate da crepare la pelle
ci faceva uscire fuori per sempre
bentornati a noi. E bentornata pure a te.

 

 

Dentro
Sembrava tutto a posto, poi quello che ci teneva qua
s’è rotto come un coccio. La terra s’è mescolata con la terra.
Capita che si cresca nell’impasto più sottile del dolore.
In un campo non lontano da qui i rom hanno perduto
la loro battaglia accerchiati dal fuoco
un rogo di fiori in mezzo alla notte.
Tanto che alla fine sarebbe stato tutto
tiepido di cenere. Ma si dice che c’è
buio e buio e c’è il fosco più nascosto.
Eppure fino a un certo punto era stato tutto così chiaro
il freddo e il gelo che la sera s’era fatta piccola
nel carro come un fagotto. Che solo dopo
tanta tosse il fumo aveva coperto la paura
la culla di un bambino ladro dentro
una fiamma che ruba. E su tutto puzzo
da scansare oltre l’ombelico come uno zingaro
infilato in un vicolo, colpa come roba normale
un cartoccio di giornale una pagina con un pezzo
sul guadagno del male fatto così bene
con una foto dei fratelli di Abele.
Mentre dopo l’ultima colonna a destra
intanto uno scafo portava un carico
con le spalle girate la sorte verso il futuro.

 

Chi

Per carità d’accordo va bene anch’io vorrei
dirlo come si conviene ma senza citare
senza sfilare un verbo dalle tasche
dalle pagine dalla lingua di un dio invano
che alla fine tanto si sa troppo di tutto
quello che muore. Che poi a pensarci bene
chi può più della forza che ha il tuo letto
della morsa della tua stanza
delle tue mura di casa sempre
con quell’unica porta da infilare
sulla punta della chiave. E chi più
del compenso che cerchi quando vorresti
lì fuori tutto immenso compreso il varco del bar
e infinita la tazzina del caffè. E chi più
di quel chiuso e del niente di quel locale
dove tutti girano le facce le pagine
le poche righe una foto, di tutte quelle
parole ammassate che restano dentro
come i coriandoli a terra quando il carnevale s’è spento.
E chi poi può più di noi a cena lì lì
sempre sul punto di esserci come la pasta al dente
con quell’animaccia nostra a resistere
inesorabile al centro che ancora niente di niente.

 

 

 

Paolo Pistoletti è nato nel 1964 a Città di Castello e vive e lavora ad Umbertide in provincia di Perugia. Dopo gli studi in giurisprudenza e in teologia ha continuato ad approfondire i contenuti di alcune correnti spirituali. Dal 2010 cura e conduce un programma di letture e poesia a RadioRCC, proponendo anche testi propri.