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Villa Dominica Balbinot

10 settembre 2019

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RECENSIONE DI FRANCO DI CARLO SULLA RACCOLTA
“ E TUTTI QUEGLI AZZURRI FUOCHI”

Questa nuova quarta raccolta poetica di VILLA DOMINICA BALBINOT si distingue nettamente per la sua ricerca stilistica e formale.

Infatti è qui, in “quel qualcosa di scritto”, che questa poesia presenta la sua originalità e singolarità: nella utilizzazione, quasi completa variegata e polivante, del sistema espressivo, proprio e caratteristico, dei colori e delle loro trame evocative e metaforiche, nelle loro suggestioni oniriche e surreali, come spie speculari, della vita semiologica e semantica dell’inconscio e del sogno.

Qindi sopratutto le scelte lessicali e la struttura sintattica sono piegate a questi segnali, paradigmi e segni archetipici e alle loro ancipiti e anfibologiche connotazioni di stile, di simboli e di significati polimorfi e polivalenti e perciò appartenenti all’anima profonda della Poetessa, oltre a quelli appartenenti alla sfera emozionale e sensoriale. Questo spiega anche l’uso, accentuato, della viva vivente, espressionistica metafora, ossimorica e sinestetica.

La Poesia di Villa Dominica Balbinot deve dunque molto ai pittori, alla pittura e ai suoi colori e al loro poliedrico universo di forme segni espressioni in particolare al colore azzurro pallido di fuoco (che suggerisce anche il titolo della raccolta, dall’ultimo verso dell’ultima poesia) o “alla luce di ambra della sera” al ”bianco perlaceo /della colonna vertebrale”: o ancora alla “notte chiara”e magneticamente luminosa e azzurramente  ombrata; “all’ora color di malva” o “ di acciaio/ e giallo cinerino”, “al suo splendore cupo”, nell”azzurrità dell’ombra”.

Colori prettamente notturni, cupi (ma anche bianchi chiari neutri)che rimandano a visioni rivelazioni spettacoli paesaggi di morte, rovfine, torture, di fugace e tetra agonica dispersione e disperazione, di vuoto, perdite, mancanze, lacerazioni , inquietudini , privazioni, abissi, ferite; di vuoto, di detriti, frammenti, frantumi; di nulla, insomma dell’”essere del nulla”.  Ma un Nulla Celeste e Lucente.

La poesia di Villa Dominica Balbinot non è però solo visionaria o onirica e surreale, proveniente, perciò, dall’interno e che poi si riflette sugli oggetti e sulle cose, sui paesaggi e sulle persone, sulla natura umanizzata e senziente. Ma è anche e sopra tutto visiva, analoga a quella di Dino Campana (e quindi sensoriale e sensuale) e dei poeti e pittori surrealisti ed espressionisti. Per questo la Parola poetico-pittorica denota esprime rappresenta ed evoca “ le sue violacee ombre” e “accumulate agonie”, la ”sua acqua scura”, il suo “crepuscolo azzurro”. La sua “grandezza opaca”: la sua ostinata e feroce “macerazione”, la sua “bellezza arcaica e tragica”.

Il Sentimento del Tempo, non – ungarettiano nè bergsoniano (“durèe”), ma fatto di cristalli poliedrici, è spazializzato e geometrizzato (come le celle dei rombi / di un alveare) e, quindi, non lineare ma circolare e periodico: il Sentimento del Nulla Splendente e del Tempo Celeste. Un Tempo nietzcheanamente nullificato e quindi reso, perdutamente, ontologicamente “positivo” e in cui “Tutto è arcano, fuorchè il nostro dolor”. Tutto è mistero: la conoscenza, le oscure profondità della Psiche, la poesia stessa, meno che la sofferenza e la sua dimensione corporale e quella, nullificante, del nostro Ex-sistere, il sentimento, cristallizzato, del tempo e del Cielo meravigliosamente blu cobalto. L’ombra della parola è, quindi, per Villa Dominica Balbinot silenziosamente azzurra e vicinamente nostalgica, vaga e antica, germogliante e penetrante, nel taglio teso e temerario del Tempo opaco, smisurato, infinito e indefinito. Un Tempo procronico, prima del tempo, un primo tempo o un tempo primo, primario, principale, iniziale, che va oltre la linea gialla, la linea del fuoco. Allo stesso modo anche lo spazio è temporalizzato, reso in-finito e universale, assolutizzato, nella dimensione (soggettiva) della “geometria del cuore”: una sorta di sistema sentimentale paradigmatico declinato in un “qualcosa di scritto”, in un antistante Forma e nelle sue varie espressioni.

Dominique non fa poesia per cercare e trovare finalmente una pacificazione o risoluzione o ritrovare in essa un nuovo o rinnovato “io”. Ma per illuminare il suo “diverso”,  profondo “Sè” e rappresentarlo. Un Sè (poetico) abitabile e esprimibile. La sua unica Dimora è quella della Poesia. 

FRANCO DI CARLO

 

 

DALLA RACCOLTA “ E TUTTI QUEGLI AZZURRI FUOCHI”

  

SOTTO L’ETERNA SIEPE VERDE

…Sotto l’eterna siepe verde
la notte era molto tranquilla
linda e senza vita
nel sole occiduo:
sul nudo pendio
anche le rovine sembravano
naturali-
innocue-…

Ma nessun luogo era invulnerabile;
oh tutte tutte quelle linee dure de l’Innominabile
sulla
carne ferita
con le sue violacee ombre
– quelle accumulate agonie
[E quei giudizi accidentali,
ne le casuali uccisioni,
– le stragi piccole,
il lungo inutile squarcio]
Ora la luna sorgeva
sui vecchi campi – e le case sfregiate-
e il ragazzo giaceva tranquillo
tra i piccoli fiori silvestri rossi e violacei:

era molto pallido come fosse morto da sempre.
( E c’era una luce mista di blu secreti
e di lillà
sulla innominata acqua scura,
-e quell’abbandonato flutto
sulle tristi ossa di tutti gli annegati..)

 

DALLE NAVATE DEGLI ALBERI GERMOGLIANTI

…Dalle navate degli alberi germoglianti
( si stendevano belle e lucenti
nei lunghi giorni perfetti)
si arrivava alla tacita linea di acqua,
l’innominata acqua scura,
un assoluto solitario
quasi sotto l’orlo angusto…

Dopo il crepuscolo azzurro
la notte era molto tranquilla,
e quei morti intorno a lei
nella loro innominata carne ferita
erano sostanziali misurati e preziosi
capaci di movimenti lenti e terribili.
Tra sofisticherie e sottigliezze teologiche
lei aveva una espressione di fredda
– e pensosa- riservatezza,
nelle possessioni- tutte sue-
( e dopo il macello geometrico)
Tutto l’incesso
per quella strada ardente
era astratto e scabro
come la camera dei suicidi in un albergo
e il cielo si era rannuvolato intanto,
striato dai cardati fili colore di seppia,
che erano sul punto di precipitare.

  

E IN UN MONDO DI GRANDEZZA OPACA

…( Aveva in cuore qualcosa di torbido,
quella bianca previsione di innocenza)

Le toccava poi continuare
con ostinazione e ferocia
quella specie di macerazione,
che la portava sempre
(nello estremo delle notti)
in quelle immense regioni insopportabili
– approssimative e vaghe
sulla fredda tagliente sabbia di deserto

Fu semplicemente annientata
-dalla affezione
irreparabile
e in un mondo di grandezza opaca:
vedeva il lato più barbaro- e quello più estetico,
l’intero intendimento oppiato,
per dare,
dare qualcosa di tremendo ovunque
mentre tutti quei volti
avevano una specie di bellezza
arcaica e tragica,
e tutte le acque erano nere
terribilmente nere
(e
silenziose – terribilmente silenziose )

AVEVANO QUALCOSA DI FRAGILE

[…Avevano qualcosa di fragile,quelle giornate di un grigio delicato..]

Fra quelle precarie-elettriche-ombre
( piatte fisse
come
calcinate)
si evidenziava
la estrema linea,
di una intera
adamantina– crudeltà…
Da quelle feritoie alte
– e sull’impietrato
-lì in quell’angolo remoto,
vi era la fine degli anni amati,
la suppurazione suprema
– de le storie minime,
– di tutti quei crimini inutili,
ne il minerale intrico dei tegumenti,
delle giunture.

 

QUEL CIELO ERA- ALLORA- BLU COBALTO

Era una strada meravigliosamente silenziosa:
quel cielo era blu cobalto,
allora allo zenit…
( troppa erba, troppi fiori,- e di un profumo troppo soave,
con troppa luce,
in uno splendore selvaggio.)
( Ora ovunque vi è qualche particolare,
di quello stesso orrore)…
Il suo è un segreto canto funebre,
canta alle rovine proibite,
– a quella perversa struttura tutta,
raccoglie i dati impuri,
le
micidiali arsioni:
la lingua è tutta inventata
pietosissima
,
lei è lirica- è crudele-
( Quel sontuoso colore vermiglio,
quel riflesso purpureo…
).

 

 LA NOTTE DIVENNE GRANDE

[..Ne l’innaturale territorio
in quella specie di costrizione
la notte divenne grande…]

Uscendo da una di quelle torri
( alt
e, paurosamente alte)
e in quel pervasivo silenzio bianco.
-in quella luce opalina uniforme-
ricordava solo
il mezzogiorno
simile allora
a un
grande canto azzurro,
e nei giardini gli alberi tutti,
col dolce lutto della loro primavera
bianca e rosea( ormai sfiorita,
svanita),
quella – sua-
abbacinata natura elettrica,
nella chiusa taciturnità della carne
che sempre impallidiva.
( Bianchi erano i rovi,

fredde ,
possenti [e vicine]
le dure pareti dei monti

nella niditezza della aria
-ne
la smunta opacità di quel colore notturno).

 

L’AZZURRITA’ DELL’OMBRA

Era stato allora
( guardando lontano nella sera,
nell’azzurrità della ombra
di una rosa spogliata)
che si era detta,
che tutto forse le sarebbe infine apparso
(riflettendoci)

quasi perfetto

Ci sono sempre delle cose
che accadono nel silenzio,
come la cauterizzazione sua alla vita,
quella disarticolazione strana
che la faceva correre
qui
– alla sorgente e
alla cieca lontananza,
a quella giacitura tra le sonnambule urla
( ah la rigida dolcezza
la insana crudezza tutta).

Lei ora si sentiva magnifica
isolata
[attorno alla superficie]
e ogni cosa era di un bianco quasi puro

– vagamente corrotta
in quella superba-
storta– Inquisizione barbarica
dei
supremi crimini , e della loro lingua antica.

 

PER QUELLE STRADE IRREALI DELL’ALBA

Per quelle strade irreali della alba
c’era solo un grande silenzio
(immane estatico)
sprofondante in un vuoto immaginifico
– troppo dolce perchè si potesse sopportarlo.
E loro erano ancora tutti lì,
misteriosi ostinati ben visibili
incancellabili...
Del resto non è una storia
inaudita– questa-
sulla terra:
quei forzamenti,
le stagnazioni magre tutte,
i –
suoi-personaggi disfatti
e nell’assoluto atto,
una simile lebbra
( e quel superbo inquisitore di crimini,
– nel
silenzio selvaggio
in un inconcepibile modo

quel lungo grido
che diceva sempre la stessa cosa)
.

 

ESSI TENTAVANO ALLORA

Essi tentavano allora
il deserto dell’aria,
una secrezione ultima
contro la degenerescenza lenta
le diluviane piogge,
quegli scheletri vivissimi
di alberi calvi
[ E oltre questi passaggi, le suture
le glandole tutte
di una
intoccata vita]
Quella storia non era finita,
contava solo ciò che era trionfante:
sotto un cielo serico -e
freddo
(sulla superficie oscura
di quelle
antiche acque)
anche tutto il suo corpo
era rovente,
– in una fioritura come prevista,
tra le grida dei caprimulghi,

(tra quelle fiamme che
divorandola
si inazzurravano…)
.

 

OLTRE QUELLE PERSEGUITAZIONI

…[Oltre quelle perseguitazioni
ricercava una versione più pura,
e tuttavia si sentiva ossificata…]

Al di là delle forme di indaco del delta,
ecco i vapori
arancioni ocracei fulvi,
l’azzurro del cielo sottoposto al corrosivo acido;
ogni cosa si fece – a poco a poco-
pallidamente color violetto,
un che che rovinava in ramoscelli rosei,
come un fiore di tulipa che cadesse su di uno stagno grigio…
E si ritrovò con solo il suo corpo scarno:
un nucleo di dilatata agonia,
-tutto quel nervume-

quel minerale sguardo ,
il
legale assassinio
sopra una terra abbandonata :
con unzione ,in contemplazioni di ogni sorta,

la sua faccia era rivolta ai fiori,
selvaggi e spampanati.

 

 

Villa Dominica Balbinot di ascendenze emiliano-venete, ha vissuto gli anni fondamentali in Lombardia (provincia Milano) ora vive in duro ambiente rurale, in Emilia.
Maturità classica e Corso di studi universitari in lettere. Ha incominciato a scrivere dal 2006 [un “esordio” da persona matura e improvviso, diciamo ex-abrupto) e cimentandosi inizialmente sui gruppi di scrittura presenti sul web (it.arti.poesia, it.arti.scrivere) e subito dopo creando i propri blog personali, uno di poesia (inconcretifurori.wordpress.com) il secondo di prosa e racconti (dell’idrairacconti), cercando poi di raccogliere il complesso delle proprie produzioni in quello che mano mano dovrà essere sempre più il blog https://villadominicabalbinot.wordpress.com
Sin dal suo primo numero – e fino alla sua chiusura – ha collaborato al lit-blog viadelledonne.wordpress.com. FEBBRE LESSICALE è la raccolta d’esordio, autoedita attraverso il sito ilmiolibro.kataweb.it come del resto le tre sue successive raccolte
QUEL LUOGO DELLE SABBIE – I FIORI ERANO FERMI – E LONTANI – E TUTTI QUEGLI AZZURRI FUOCHI, cui si riferisce la nota critica di FRANCO DI CARLO

Villa Dominica Balbinot

27 gennaio 2013

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DAL CELLARIO DELLA CARNE

 La poesia è il farmaco che apre ogni volta la ferita e ne spinge fuori la materia in eccesso, il marciume, l’infetto. Per i poeti che hanno coraggio.
Medicina e cura, dolore e pausa, dentro un respiro più fondo, di aria più pura che per un attimo caccia i miasmi; ma neppure l’aria pura, incorrotta, è salvifica perché è vuota e non ha melodie come una conchiglia di mare ma cupa piega infossata che il gelo scava nella terra, non vita, inospitale e incapace a accogliere vita.
Dominica ci proietta le sue allucinazioni ( le nostre?) senza un briciolo di commiserazione ( la fede è allucinata- le orazioni giaculatorie di beghine, gli esoscheletri contorti,….); è un paesaggio interiore costruito su uno esteriore che è ripugnante e tutta una serie di sostantivi ce ne dà conferma (gelidume- delicto- inferi nudi- cogitazioni affoschite,…)
In questo paesaggio che non conserva che parvenze di bellezza ( funebri, decapitate rose), che è un coacervo di ripugnanze che transitano dagli oggetti agli uomini o forse che hanno compiuto il percorso inverso, dagli uomini agli oggetti; anche gli uccelli non hanno piume e penne e quindi volo e restano dipinti su velluto. Immagini, senza volo, fermi come la terra.
Quanto dolore trasudano questi versi che non possono dire l’ansia di bellezza e di bene che attraversa la poetessa! Uso raramente il punto esclamativo, quasi fosse un’arma impropria, ma parlando di Dominica mi serve perché sostituisce la spada fiammeggiante del giudizio e arde tutto il male che incontra.
In quale altro modo, meno forte, meno intenso, meno dolente, si potrebbe dire la condizione umana, oltre questi versi: “  il frigido sangue che riconosce la consunzione, /le enfiagioni poi tutte /
come fossero di un disassamento lo inizio.”
Incontriamo il sangue che è  “frigido” e non un dissanguamento, ma un “disassamento”: sangue di pietra; a rimediare a questi traumi non so se sarà più possibile, quando il sangue potrà tornare caldo e ci si potrà dissanguare…
E’ forse esistito un tempo in cui noi , uomini, siamo stati creature bellissime, di fuoco e d’amore, ma ci siamo ritrovati miserevoli, profanati da morbosa bellezza, cacciati negli ipogei, gli dei tutti immiseriti, estranei; perché è successo non sa il poeta, non è detto quindi al lettore che solo è partecipante a questa disfatta che nessuno può più redimere né sopperire in un qualche modo.
La carne stessa è diventata cellario, ovvero contenitore sbarrato, come per detenuti  e detenuti restiamo, senza attese di gesti di perdono, soli nell’afflizione.
Una poesia così priva di speranza, così dura, ancora più dura per il lessico quasi scientifico usato  quasi a stabilire che ciò che viene presentato è la verità, almeno ora è la sola verità a cui si sia giunti.
La poesia “Dei disfatti colori” è la descrizione di una visione surreale, o iperrealistica, da day after; ma spesso troviamo nelle poesie di Dominica immagini di una rovina da dopo la fine; ma questo luogo sgradito e sgradevole è il solo che accetta di ospitarci, a quale prezzo:
“Nel lungo tramonto blu /del deserto blu/ il loro grido sembrava nascere dalla notte stessa /quale tremendo e bellissimo/ – come il carnivoro fiore…/In questo scorticatoio/ – e tra i flegmi, /tra le materie umide/ de la bruciata cosa-/  dagli sconsolati abissi………….”
Ma se la poetessa questo ci rappresenta, sono certa, che conosce l’altra faccia rifiutata: quella della bellezza, dell’ armonia, dell’amore, del mistero…
Il dolore che trapassa ogni verso nasce dalla consapevolezza di un altro possibile universo, rinnegato già prima dell’alba.
Ho già detto del lessico inusuale utilizzato da Dominica: tecnico, affilato come un bisturi, visionario e immaginifico: lei stessa ne rileva la particolarità usando talora il corsivo o il grassetto. Eppure i versi, nel loro spietato farsi, conservano un accordo musicale riconoscibile che ci mostra la maestria di poeta dell’autrice e  consente di farsi leggere e di farci anche noi trapassare dai significati veicolati.

Narda  Fattori

VENNERO DUNQUE

E vennero- dunque-
quelle incessanti variazioni dei venti,
la bruna incisione invernale
la infossata piega,
– una tremenda velocità segreta.
Eccolo- allora-
quel candido abrupto muro
in tutta la sua interminabilità,
la trasudazione torbida
– l’opaco siero-
a causticare,
e su un tappeto di funebri rose:
come se fosse calcinato bevve,
da la allucinata fede…

LINDE INCORROTTE ( E VUOTE)

Linde incorrotte – e vuote-
perfino certe sue
amplificazioni retoriche
( le giaculatorie orazioni)
parevano riverberare,
quali un luccichio marmoreo su nude pareti,
gli esoscheletri contorti
di tubature di ferro.
Dagli inferi nudi
dal cellario della carne
decretava- in delicto-
quel solo gelidume:
grandi insetti verdi
risucchiati da sabbie mobili di erba,
tutti quei cupi uccelli di velluto
e perfettamente immobili…

 

IN QUESTA TERRA FIRMA

Dopo la rivelazione sinistra
la primavera fu precoce:
egli ci scrutò con i suoi occhi cupi…

In questa terra firma
si affiochiscono- le cogitazioni,
e solo rimane il perfetto silenzio;
quell’ implacabile
sguardo suo spento
non era più illuminato
che da una fiamma,
trasudava dalle membrane
un che di incorruttibile
( essi però non vedevano la sua intima perfezione ):
oh, oh
ma oh, i moti connettivi ,
la appuntita giuntura,
quel liquido freddo
vertebra per vertebra,
il frigido sangue che riconosce la consunzione,
le enfiagioni poi tutte
come fossero di un disassamento lo inizio.

DEI DISFATTI COLORI

Succhiò la bellezza
dei disfatti colori
la vitrea barriera
di misteriosi cieli sulle rovine:
il sereno sulle cime
-su tutti quei loro devastati orli-
era atroce…
Rimaneva solo la impura verità,
la ossessione incorruttibile:
una sua meditazione cupa,
quel lucido commentario verso una città segreta
( I fiori apparivano piccoli e bianchi,
le arcate bianche di calce)

E ESTENUAVA

E estenuava,
nel paesaggio dalla obliqua luce
nel conservato morbo
– tra quei residui pallidi…

Viveva nel subacqueo allucinatorio mondo
tra gli steli cupi e turbinanti delle alghe vorticava,
in quelle liquefazioni delle sabbie…
E il resto era spoglio,
come il segreto di una devastazione rapida
(come se si fosse poi crocifissa da sola,
e al bordo della feritoia)

QUALE TREMENDO – E BELLISSIMO-

Nel lungo tramonto blu
del deserto blu
il loro grido sembrava nascere dalla notte stessa
quale tremendo e bellissimo
– come il carnivoro fiore…

In questo scorticatoio
– e tra i flegmi,
tra le materie umide
de la bruciata cosa
dagli sconsolati abissi
faceva ora parlare tutti gli dei,
– e in stato di agonia:
implorava il trionfo continuo della vittima,
nella irreparabile sopravvivenza
(nel rappreso gelido sangue)

E SU GLI SCARLATTI CAMPI

… “Bisogna essere capaci di tutto
( e con della freddezza
il grado più audace)
in questo universo stellato,
– in uno di questi immensi mondi
immoti congelati esangui”..

 

Il sole ardeva sui muri grigi
e sugli scarlatti campi
– fiorivano le rose dolcemente decapitate:
solo allora precisamente crollava,
nello smisurato scenario di cristalli della morte,
nel tessutale disfacimento
( un paesaggio fluviale,
una devastazione,
una città di martiri).
In una atmosfera esasperata
di luce e di attesa
perfino quelle celle le appartenevano,
come a un essere remoto e latitante
spaventosamente compresso,
– lo sguardo suo già in una notte.
E drammaticamente esstrangolava:
che cosa mai si stesse poi lacerando,
nelle processioni di morbosa bellezza,
negli ipogei tutti
– in quelle tombe in cui non era ancora stata?…
( oh, quella idea di profanazione,
della oltranza
quel residuale esito..)

PRIMA DI TUTTO SOPRAGGIUNSE LA RUINA

Prima di tutto sopraggiunse la ruina
– con un rumore duro e cavo:
la tormentosa agonia
di chi si misura contro gli dei,
la verità celata- e solo imperfetta…

Iniziò a precipitare da quel giorno
(l’episodio inaudito, la Consummazione )
come se osasse vivere  solamente in mezzo ai morti
ai dimissionari, a uomini spenti, destituiti.
Volle correre verso quell’orizzonte in fiamme,
e con il linguaggio dell’oscurità degli addii,
dei proibiti distretti.
E si nutrì anche di morte,
perché tutti morirono:
oh, avesse mai potuto amare,
il gelo magnifico e crudele
quelle funeree allucinazioni
( della nostra  recisa testa),
anche quel futuro- e l’avversione,
quella scabra scorza.
( Da qualche parte uccidevano
cerimoniosamente:
ma magnifici eravamo noi, e calmi,
nel deturpamento grande)

QUELL’INNATURALE MOMENTO

Come  spira infinita
( attorno al Fatto, quell’innaturale momento)
tardi mi assalì l’esistenza
– e  segreta, squisita, angosciosa-:
il sole della sera incombente
come una riva di fiamme.
la  sua gialla luce ostile
–  gli odori corrotti ,
del deserto e del fiume…

“Odium mortis conturbat me”
Ma ora che l’Innominabile
era stato nominato,
io temevo il loro volto
(eppure,  sono sempre stati composti, i morti…)
il sangue mi si faceva puresso sottile:
gli altri avevano cominciato presto,
– a uccidere, a possedere-
mia fu- la falsa ornamentazione,
disperata languente ,
come una sorta di espirazione.
( Quello che mi stupì
fu poi il silenzio…)

TUTTO TUTTO AFFONDA

Totalmente contempla, è fissa
sui neri alberi irsuti,
sulla nera acqua fremente,
osserva la pura realtà fenomenica,
e quegli uccelli senza fine,
nel rosso di questa terra…

Tutto, tutto affonda
( come lussurioso, pestilenziale)
nei vuoti cristallini
neutri passivi,
nello scorticato biancore,
nella vermiglia goccia.
La luce è fredda
– di crudeltà immota  –
straordinariamente e inumanamente
sono nostri,
tutti questi sibilanti elusivi fiori di fiamma,
lo scheletro di cristallo.
( E c’è lei,
che salmodia ferocemente,
in una lingua morta…).

 Villa Dominica Balbinot dice di sé:
ho iniziato a scrivere con costanza solo dopo il 2006 e cimentandomi inizialmente sui gruppi di scrittura presenti sul web(it.arti.poesia it.arti.scrivere) e subito dopo creando i miei blog personali. uno di poesia (inconcretifurori) il secondo di prosa e racconti (dell’idrairacconti).
Sin dal suo primo numero collaboro al lit-blog viadelledonne.wordpress.com.
MI posso considerare inedita su carta, potendo contare unicamente sulla raccolta FEBBRE LESSICALE da me autoedita attraverso sito il miolibro.kataweb.it
Questi miei testi testi li ho scelti tra  i più recenti in ordine cronologico, come compaiono del resto nel mio blog inconcretifurori.wordpress.com in cui è raccolta l’intera mia opera poetica fin dal primissimo scritto.
Non mi sento all’altezza di teorizzare su ciò che si dovrebbe intendere o che io stessa intendo per poesia o di cimentarmi in un discorso analitico o critico di tale portata, posso solo dire che a mio parere in tale ambito per me è importante cercare di dare espressione alla propria voce individuale- e con con tutti i rischi conseguenti.