RECENSIONE DI FRANCO DI CARLO SULLA RACCOLTA
“ E TUTTI QUEGLI AZZURRI FUOCHI”
Questa nuova quarta raccolta poetica di VILLA DOMINICA BALBINOT si distingue nettamente per la sua ricerca stilistica e formale.
Infatti è qui, in “quel qualcosa di scritto”, che questa poesia presenta la sua originalità e singolarità: nella utilizzazione, quasi completa variegata e polivante, del sistema espressivo, proprio e caratteristico, dei colori e delle loro trame evocative e metaforiche, nelle loro suggestioni oniriche e surreali, come spie speculari, della vita semiologica e semantica dell’inconscio e del sogno.
Qindi sopratutto le scelte lessicali e la struttura sintattica sono piegate a questi segnali, paradigmi e segni archetipici e alle loro ancipiti e anfibologiche connotazioni di stile, di simboli e di significati polimorfi e polivalenti e perciò appartenenti all’anima profonda della Poetessa, oltre a quelli appartenenti alla sfera emozionale e sensoriale. Questo spiega anche l’uso, accentuato, della viva vivente, espressionistica metafora, ossimorica e sinestetica.
La Poesia di Villa Dominica Balbinot deve dunque molto ai pittori, alla pittura e ai suoi colori e al loro poliedrico universo di forme segni espressioni in particolare al colore azzurro pallido di fuoco (che suggerisce anche il titolo della raccolta, dall’ultimo verso dell’ultima poesia) o “alla luce di ambra della sera” al ”bianco perlaceo /della colonna vertebrale”: o ancora alla “notte chiara”e magneticamente luminosa e azzurramente ombrata; “all’ora color di malva” o “ di acciaio/ e giallo cinerino”, “al suo splendore cupo”, nell”azzurrità dell’ombra”.
Colori prettamente notturni, cupi (ma anche bianchi chiari neutri)che rimandano a visioni rivelazioni spettacoli paesaggi di morte, rovfine, torture, di fugace e tetra agonica dispersione e disperazione, di vuoto, perdite, mancanze, lacerazioni , inquietudini , privazioni, abissi, ferite; di vuoto, di detriti, frammenti, frantumi; di nulla, insomma dell’”essere del nulla”. Ma un Nulla Celeste e Lucente.
La poesia di Villa Dominica Balbinot non è però solo visionaria o onirica e surreale, proveniente, perciò, dall’interno e che poi si riflette sugli oggetti e sulle cose, sui paesaggi e sulle persone, sulla natura umanizzata e senziente. Ma è anche e sopra tutto visiva, analoga a quella di Dino Campana (e quindi sensoriale e sensuale) e dei poeti e pittori surrealisti ed espressionisti. Per questo la Parola poetico-pittorica denota esprime rappresenta ed evoca “ le sue violacee ombre” e “accumulate agonie”, la ”sua acqua scura”, il suo “crepuscolo azzurro”. La sua “grandezza opaca”: la sua ostinata e feroce “macerazione”, la sua “bellezza arcaica e tragica”.
Il Sentimento del Tempo, non – ungarettiano nè bergsoniano (“durèe”), ma fatto di cristalli poliedrici, è spazializzato e geometrizzato (come le celle dei rombi / di un alveare) e, quindi, non lineare ma circolare e periodico: il Sentimento del Nulla Splendente e del Tempo Celeste. Un Tempo nietzcheanamente nullificato e quindi reso, perdutamente, ontologicamente “positivo” e in cui “Tutto è arcano, fuorchè il nostro dolor”. Tutto è mistero: la conoscenza, le oscure profondità della Psiche, la poesia stessa, meno che la sofferenza e la sua dimensione corporale e quella, nullificante, del nostro Ex-sistere, il sentimento, cristallizzato, del tempo e del Cielo meravigliosamente blu cobalto. L’ombra della parola è, quindi, per Villa Dominica Balbinot silenziosamente azzurra e vicinamente nostalgica, vaga e antica, germogliante e penetrante, nel taglio teso e temerario del Tempo opaco, smisurato, infinito e indefinito. Un Tempo procronico, prima del tempo, un primo tempo o un tempo primo, primario, principale, iniziale, che va oltre la linea gialla, la linea del fuoco. Allo stesso modo anche lo spazio è temporalizzato, reso in-finito e universale, assolutizzato, nella dimensione (soggettiva) della “geometria del cuore”: una sorta di sistema sentimentale paradigmatico declinato in un “qualcosa di scritto”, in un antistante Forma e nelle sue varie espressioni.
Dominique non fa poesia per cercare e trovare finalmente una pacificazione o risoluzione o ritrovare in essa un nuovo o rinnovato “io”. Ma per illuminare il suo “diverso”, profondo “Sè” e rappresentarlo. Un Sè (poetico) abitabile e esprimibile. La sua unica Dimora è quella della Poesia.
FRANCO DI CARLO
DALLA RACCOLTA “ E TUTTI QUEGLI AZZURRI FUOCHI”
SOTTO L’ETERNA SIEPE VERDE
…Sotto l’eterna siepe verde
la notte era molto tranquilla
linda e senza vita
nel sole occiduo:
sul nudo pendio
anche le rovine sembravano
naturali- innocue-…
Ma nessun luogo era invulnerabile;
oh tutte tutte quelle linee dure de l’Innominabile
sulla carne ferita
con le sue violacee ombre
– quelle accumulate agonie
[E quei giudizi accidentali,
ne le casuali uccisioni,
– le stragi piccole,
il lungo inutile squarcio]
Ora la luna sorgeva
sui vecchi campi – e le case sfregiate-
e il ragazzo giaceva tranquillo
tra i piccoli fiori silvestri rossi e violacei:
era molto pallido come fosse morto da sempre.
( E c’era una luce mista di blu secreti
– e di lillà–
sulla innominata acqua scura,
-e quell’abbandonato flutto
sulle tristi ossa di tutti gli annegati..)
DALLE NAVATE DEGLI ALBERI GERMOGLIANTI
…Dalle navate degli alberi germoglianti
( si stendevano belle e lucenti
nei lunghi giorni perfetti)
si arrivava alla tacita linea di acqua,
l’innominata acqua scura,
un assoluto solitario
quasi sotto l’orlo angusto…
Dopo il crepuscolo azzurro
la notte era molto tranquilla,
e quei morti intorno a lei
– nella loro innominata carne ferita–
erano sostanziali misurati e preziosi
capaci di movimenti lenti e terribili.
Tra sofisticherie e sottigliezze teologiche
lei aveva una espressione di fredda
– e pensosa- riservatezza,
nelle possessioni- tutte sue-
( e dopo il macello geometrico)…
Tutto l’incesso
per quella strada ardente
era astratto e scabro
come la camera dei suicidi in un albergo
e il cielo si era rannuvolato intanto,
striato dai cardati fili colore di seppia,
che erano sul punto di precipitare.
E IN UN MONDO DI GRANDEZZA OPACA
…( Aveva in cuore qualcosa di torbido,
quella bianca previsione di innocenza)
Le toccava poi continuare
con ostinazione e ferocia
quella specie di macerazione,
che la portava sempre
(nello estremo delle notti)
in quelle immense regioni insopportabili
– approssimative e vaghe
sulla fredda tagliente sabbia di deserto
Fu semplicemente annientata
-dalla affezione irreparabile–
e in un mondo di grandezza opaca:
vedeva il lato più barbaro- e quello più estetico,
l’intero intendimento oppiato,
per dare,
dare qualcosa di tremendo ovunque
mentre tutti quei volti
avevano una specie di bellezza
arcaica e tragica,
e tutte le acque erano nere
terribilmente nere
(e silenziose – terribilmente silenziose )
AVEVANO QUALCOSA DI FRAGILE
[…Avevano qualcosa di fragile,quelle giornate di un grigio delicato..]
Fra quelle precarie-elettriche-ombre
( piatte fisse
come calcinate)
si evidenziava
la estrema linea,
di una intera–adamantina– crudeltà…
Da quelle feritoie alte
– e sull’impietrato
-lì in quell’angolo remoto,
vi era la fine degli anni amati,
la suppurazione suprema
– de le storie minime,
– di tutti quei crimini inutili,
ne il minerale intrico dei tegumenti,
delle giunture.
QUEL CIELO ERA- ALLORA- BLU COBALTO
Era una strada meravigliosamente silenziosa:
quel cielo era blu cobalto,
allora allo zenit…
( troppa erba, troppi fiori,- e di un profumo troppo soave,
con troppa luce,
in uno splendore selvaggio.)
( Ora ovunque vi è qualche particolare,
di quello stesso orrore)…Il suo è un segreto canto funebre,
canta alle rovine proibite,
– a quella perversa struttura tutta,
raccoglie i dati impuri,
– le micidiali arsioni:
la lingua è tutta inventata
pietosissima,
lei è lirica- è crudele-
( Quel sontuoso colore vermiglio,
quel riflesso purpureo…).
LA NOTTE DIVENNE GRANDE
[..Ne l’innaturale territorio
– in quella specie di costrizione–
la notte divenne grande…]
Uscendo da una di quelle torri
( alte, paurosamente alte)
e in quel pervasivo silenzio bianco.
-in quella luce opalina uniforme-
ricordava solo
il mezzogiorno
simile allora
a un grande canto azzurro,
e nei giardini gli alberi tutti,
col dolce lutto della loro primavera
bianca e rosea( ormai sfiorita,
svanita),
quella – sua- abbacinata natura elettrica,
nella chiusa taciturnità della carne
che sempre impallidiva.
( Bianchi erano i rovi,
fredde ,
possenti [e vicine]
le dure pareti dei monti
nella niditezza della aria
-ne la smunta opacità di quel colore notturno).
L’AZZURRITA’ DELL’OMBRA
Era stato allora
( guardando lontano nella sera,
nell’azzurrità della ombra
di una rosa spogliata)
che si era detta,
che tutto forse le sarebbe infine apparso
(riflettendoci)
quasi perfetto…
Ci sono sempre delle cose
che accadono nel silenzio,
come la cauterizzazione sua alla vita,
quella disarticolazione strana
che la faceva correre qui
– alla sorgente e alla cieca lontananza,
a quella giacitura tra le sonnambule urla
( ah la rigida dolcezza
la insana crudezza tutta).
Lei ora si sentiva magnifica
isolata
[attorno alla superficie]
e ogni cosa era di un bianco quasi puro
– vagamente corrotta
in quella superba- storta– Inquisizione barbarica
dei supremi crimini , e della loro lingua antica.
PER QUELLE STRADE IRREALI DELL’ALBA
Per quelle strade irreali della alba
c’era solo un grande silenzio
(immane estatico)
sprofondante in un vuoto immaginifico
– troppo dolce perchè si potesse sopportarlo.
E loro erano ancora tutti lì,
misteriosi ostinati ben visibili
incancellabili...
Del resto non è una storia inaudita– questa-
sulla terra:
quei forzamenti,
le stagnazioni magre tutte,
i –suoi-personaggi disfatti
e nell’assoluto atto,
una simile lebbra…
( e quel superbo inquisitore di crimini,
– nel silenzio selvaggio –
in un inconcepibile modo
quel lungo grido
che diceva sempre la stessa cosa).
ESSI TENTAVANO ALLORA
Essi tentavano allora
il deserto dell’aria,
una secrezione ultima
contro la degenerescenza lenta
– le diluviane piogge,
quegli scheletri vivissimi
di alberi calvi
[ E oltre questi passaggi, le suture
le glandole tutte
di una intoccata vita]
Quella storia non era finita,
contava solo ciò che era trionfante:
sotto un cielo serico -e freddo–
(sulla superficie oscura
di quelle antiche acque)
anche tutto il suo corpo
era rovente,
– in una fioritura come prevista,
tra le grida dei caprimulghi,
(tra quelle fiamme che
–divorandola–
si inazzurravano…).
OLTRE QUELLE PERSEGUITAZIONI
…[Oltre quelle perseguitazioni
ricercava una versione più pura,
e tuttavia si sentiva ossificata…]
Al di là delle forme di indaco del delta,
ecco i vapori arancioni ocracei fulvi,
l’azzurro del cielo sottoposto al corrosivo acido;
ogni cosa si fece – a poco a poco- pallidamente color violetto,
un che che rovinava in ramoscelli rosei,
come un fiore di tulipa che cadesse su di uno stagno grigio…
E si ritrovò con solo il suo corpo scarno:
un nucleo di dilatata agonia,
-tutto quel nervume-
quel minerale sguardo ,
il legale assassinio
sopra una terra abbandonata :
con unzione ,in contemplazioni di ogni sorta,
la sua faccia era rivolta ai fiori,
selvaggi e spampanati.
Maturità classica e Corso di studi universitari in lettere. Ha incominciato a scrivere dal 2006 [un “esordio” da persona matura e improvviso, diciamo ex-abrupto) e cimentandosi inizialmente sui gruppi di scrittura presenti sul web (it.arti.poesia, it.arti.scrivere) e subito dopo creando i propri blog personali, uno di poesia (inconcretifurori.wordpress.com) il secondo di prosa e racconti (dell’idrairacconti), cercando poi di raccogliere il complesso delle proprie produzioni in quello che mano mano dovrà essere sempre più il blog https://villadominicabalbinot.wordpress.com