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Stefania Crozzoletti

31 luglio 2013

stefania crozzoletti
Stefania Crozzoletti o “della guerra dei mondi”

Avevo chiesto qualche tempo fa a Stefania Crozzoletti di mandarmi alcune sue poesie che ritenesse significative, perché volevo farne una lettura per queste pagine del Giardino. Mi mandò questi testi:

non farmi a pezzi, parola
cadi lieve sul fondo
disperdi i frastuoni
“silenzio, la bambina dorme!”

allontana i mostri legnosi, tignosi
sii docile, fatti lavorare
non approfittare del sonno
per beffarmi e pugnalare

ti dissi “ricostruisco la casa
se mi porti i mattoni”
invece è partita feroce
la lapidazione

giurasti di essere
la seconda possibilità
miele che guarisce
invece sei tossica
medicina sbagliata

non demolirmi, parola
ridiventa gentile
benedici i balbettii
cancella i peccati

e bussa prima di entrare

                     

sirene

non segue il richiamo, il coltello gentile che tenta l’affondo
allontana i colpi, scansa il ragno paziente

d’ora in avanti non parlerà di pelle
nemmeno sotto tortura

sorride dell’infruttuosa pesca in alto mare
sulla riva raccoglie pesci storditi da ventiquattromila baci
e vecchie sirene con la coda in fiamme

non scriverà di umori
nemmeno con una pistola puntata alla tempia

le parole che arrivano di corsa hanno il fiato corto

                           

tango di mezzo inverno

Sembra che le foglie non si vogliano staccare
con questo mezzo freddo
si tengono addosso la fede i colori
e rilasciano preghiere
prima della crocifissione a terra.
Il primo gelo – dice mio padre –
arriverà come una mannaia
a rovesciarle a terra
è solo questione di tempo

Gli amanti seduti di fronte
sono occupati a tempo pieno
a tenersi incollata la pelle.
Cinica sorrido
mentre al finestrino del treno mi appare
il ghigno di un centro commerciale
o è il profilo del maestro di tango
che farà scivolare su perle di sudore
anime e corpi in fuga

è solo questione di tempo
                      

canto d’agosto

“Ricomporsi”
è l’invito, il suono che risveglia
“chiamare a raccolta i pezzi perduti nello spazio
circostante, dimenticati dalla storia”.

Confusi arrivano
al mio centro, si attaccano
come ferraglia sulla calamita

un disordine che fa male.

Si cercano mente e frammenti di corpo
che sono stati uno
nei rari momenti di grazia
[non reggono ora la fatica del riconoscersi].

“Serve soccorso, anime”
e chiamo a me le voci delle madri
eredità di parole in forma di conforto
acqua e cibo nei giorni di metallo.

Arriva il canto e incide la pelle
sorelle maggiori portano in grembo
buone domande che sono già risposte

“respira!”, dicono
“possiamo partire, ora”.

Cammino con la mia piccola madre
di carne, creatura di seta partorita dalle colline
senza parole per sé, senza il calore

“non dipendere mai da un uomo”
l’unica certezza, il suo dono
ma io li ho contati i suoi mille sì
detti sottovoce.

Vedi, se c’è una storia, questa è la radice:
desideri mai pronunciati, il dovere che sfiora
                                                                                                                         il martirio.

“Il tempo ripara con pazienza”
dice la legge che impone l’oblio

ma con che cosa teniamo unite le storie, le mani
se abbiamo solo corpi che spurgano finzioni.

Il canto d’agosto arriva da prati d’erba e ortiche:
è il respiro della nascita, infinito e puro,
il fiato lento e calmo delle madri che cullano.
                           

canto senza spartito

A Laura stanno ricrescendo i capelli, ha il sorriso bello,
gli occhi lucidi e scuri: “non ero preoccupata per me,
pensavo piuttosto ai miei figli”.

E’ così che dovremmo essere, roccia e sempreverde insieme.

Ci attacchiamo alla vita quando sfiancata oscilla e minaccia
di cadere a terra come un frutto maturo,
non vogliamo perdere nemmeno un grammo di possibilità,

perché se tutto finisce, s’interrompe il canto
e abbiamo bisogno delle note finali
per applaudire l’orchestra.

Arrivano da fuori le braccia che mi riprendono,
sono bambini che cantano senza spartito.
                               

                           

[la poesia | la testa | lo stretto necessario]

È accaduto. Così com’è arrivata, se ne è andata. Spaventata, forse, ubriaca di parole, stanca di vomitarsi addosso.
La costringevo ad ascoltare le voci, tutte le voci che sbattevano sui muri delle case intorno alla piazza, i cicalecci, le risa di scherno, i commenti malevoli di giovani promesse petulanti e vecchie glorie ingioiellate. Troppo per lei, esserino debole e sconnesso.
Troppa l’attenzione richiesta al suo sguardo marziano. Troppi mattoni sotto_sopra_ai lati.

Se ne è andata perché le ho chiesto di farlo, non in modo esplicito, ma pensando intensamente che l’avrei barattata con un giorno senza assilli, né pensieri.
L’avrei scambiata per una prosa brillante, con un trattato sugli ecosistemi del pianeta, con un film d’azione, un cartone animato. Se solo ne fossi stata capace. L’avrei offerta alle carovane di passaggio, in cambio di spezie profumate, dell’assenza di giudizio.
[Ma le carovane non si sono mai fermate davanti alla mia casa, e il baratto è pratica antica, fuori moda].

Così se ne è andata, senza preavviso. All’inizio non ho dato importanza alla sua fuga silenziosa. È uscita alla ricerca di uno spacciatore, si è drogata di versi sporchi, di analisi glaciali, è rimasta in balìa delle leggi di mercato. I suoi respiri erano avanzi da buttare.

Mi ha lasciata perché non l’ho saputa difendere, e ha fatto bene.

Tritata, stritolata, venduta, quasi mai donata – se non per ricevere qualcosa in cambio – ammassata nella discarica virtuale, si è sentita umiliata. E come una moglie delusa, ha messo in una borsa lo stretto necessario e ha preso il largo.
Per consolarmi, mi ha lasciata in compagnia dei Pochi. A mo’ d’esempio: vedi, questa sono io. Tutto il resto è carne macinata, mascelle serrate, falsi sorrisi, rabbia repressa, interessi da tutelare.

Loro mi diranno cosa fare. Con le vite che si chiudono, passi definitivi che tracciano il sentiero, accompagnano. L’esperienza non significa nulla, serve sempre una conclusione. Questo rimane, mi rimane – alla fine – dopo l’ebbrezza della creazione, l’illusione della condivisione, la delusione che segue la presa d’atto. I mondi, in fondo si assomigliano tutti.

                       

             

[ci sorregge l’inferno
con memoria di elefante
e vista acuta

mille anni fa ci vide passare
e ancora ci ricorda
scombinati esseri
vestiti da guerrieri]
                      

verso est

È un po’ come allontanare
le ore scontate, le attese:
nulla arriva o torna.

Lo sguardo lavora contro
se non compie tutto il giro.

Sparecchiare, sistemare casa
togliere i quadri dal muro
[oh, le care rappresentazioni!]

abbracciare i parenti
fiaccare i confini fascisti

chiudere a chiave la porta
attaccarci il biglietto:
“nessuno qui è speciale”

incamminarsi verso il primo
esercizio di vicinato
o l’ultima isola del tesoro

con o senza cane – poco importa
[si vive comunque].

Verso est, la mia passeggiata sottile.

 

…e io da questi voglio cominciare, anche se la riflessione includerà riferimenti impliciti ad altre poesie e prose contenute nel libro poco prima della guerra, Kolibris, uscito ad aprile di quest’anno, di cui fanno parte i brani riportati, tranne l’ultimo, verso est.
Il primo aspetto che colpisce della poesia di Stefania Crozzoletti è la maniera spoglia e antilirica di registrare il vissuto anche di eventi minimi. Poche le rime, tendenziale l’andamento prosastico, accentuato da forti enjambement, spesso da strutture parallelistiche che non creano disordine, ma ritmo quasi “rassicurante”, lessico che non tenta funambolismi, rarità, ma precisione, che non esclude raffinatezza. Crozzoletti ricorre spesso a parentesi, saltando la familiare parentesi tonda, che tradizionalmente contiene un inciso, passando alle parentesi quadre, che in filologia rappresentano ciò che si dà, ma non ci sarebbe nel testo ufficiale: come dire “vi dico anche questo, ma non lo impongo, è una nota in calce, per chi volesse: un sussurro, un ritardato soprassalto della memoria, che vi accludo”. Per lo più interpreto con la stessa funzione l’uso indifferente del minuscolo, del maiuscolo, della scarsa punteggiatura a marcare nel segno di volta in volta prescelto un significato indiretto, laterale, dove, chi legge, ha visto risiedere quella liricità che non è mai evidente, esplosiva, “facilmente” riconoscibile. Mi urge, a questo proposito, una sottolineatura di carattere generale: trovo che la poesia oggi (la “vera” poesia), a conclusione di un percorso lungo un secolo, non possa che fuggire a gambe levate da ogni luogo in cui si manifesti (ancora) l’ipotesi di un lavoro astratto, d’illuminazione, per pochi eletti: o per pochi intimi, che fingono di capire le astruse associazioni sonore, eredi di un avanguardismo stantio che ha allontanato progressivamente, disamorandolo, il pubblico dalla poesia (non pretendo sia questo l’unico motivo del disamore, dell’indifferenza alla parola poetica).
Stefania Crozzoletti mostra di scegliere il terreno della linearità e della comprensibilità, distribuendo, tra le pieghe delle situazioni narrate (individuali ma collettive), quel tanto di sfuggente al senso, di nascosto, di irriducibilmente poetico che ne dichiara l’appartenenza: al poetico, non al prosastico. Illuminante è il passo in “prosa” [la poesia | la testa | lo stretto necessario], posto nel libro a p. 49. L’io poetico ci narra un’esperienza piuttosto nota (e ricorrente) a chi scrive poesia: forse non l’ha attraversata, o ha finto di non patirla, solo D’Annunzio, forse Carducci, gli inarrestabili: mentre noi s’ha particolare simpatia per gli imperdonabili, meglio ancora le imperdonabili, quei poeti che ricordano all’uomo ciò che hanno perduto, come sosteneva Cristina Campo; aggiungo io: poeti che parlano di assoluti attraverso relativi estremi. Come dice bene Alessandra Pigliaru nella prefazione al libro, Crozzoletti parla di una guerra in cui “gli unici vinti sono quelli che non hanno saputo ascoltare il proprio tumulto interiore e che non hanno potuto dire di no alla partecipazione attiva all’abiezione”. Ricordare agli uomini di non respingere, attratti da un presente omologante, “l’alfabeto della generosità e della responsabilità” corrisponde a mettersi tra le imperdonabili. Ma vediamo il testo.
1. La poesia va e viene, esserino fragile, troppo sollecitato a riprodurre tutte le voci, i cicalecci…la poesia ha uno sguardo marziano, muore se confinata tra case di mattoni: non può stare, cioè, alla regole di chi non vuole capirla. Non ce la fa, quando è vera, a reggere l’urto di un’ufficialità che pretenderebbe (in un mondo in cui tutti i lettori sono scrittori: e poeti) di avocare a sé soltanto il compito sacerdotale di fare poesia. Tolta di mezzo la poesia di vecchie nonne, tramonti e uccellini, stando in un ordine di raffinatezza espressiva, di eleganza, di tematiche che dal quotidiano spazino all’universalità (certi universali sono ormai quotidianità), chi può dire chi è oggi poeta? La poesia allora se ne va, disgustata.
2. Se ne va anche perché è il poeta che glielo chiede: vattene, non servi a niente, mi dai solo grattacapi, sto meglio senza di te, faccio una miglior figura se scrivo “una prosa brillante”: barattabile con altro, “spezie profumate”, per esempio, portate da “carovane” che però non si fermano mai davanti alla sua casa. La poesia non serve a niente, è derisa: meglio la scrittura, questo ritrovato scenico del teatrino dell’ “assenza di giudizio” [dei soliti noti: come Stefania, vi sussurro anch’io, fuori campo].
3. La poesia si sentiva sporcata dalle “leggi di mercato”: il poeta non l’ha saputa difendere ed essa l’ha abbandonato.
4. La poesia se sta, sta con i Pochi: ma quei pochi non sono un’élite: anzi sono tutto meno che elitari! Vorrebbero donarla, la poesia: e invece “mascelle serrate, falsi sorrisi, rabbia repressa, interessi da tutelare”, la maggior parte dei poeti [i Molti] la vendono, la stritolano.
5. Ciò che rimane è una presa d’atto amara: “l’illusione della condivisione”. “I mondi, in fondo si assomigliano tutti”: che ci riporta all’idea che la poesia sia qualcosa di alieno, ma non del tutto: ovvero si riconosce simile finché porta con sé tracce di alienità. Ciò che conferma l’appartenenza dei poeti, che non soggiaciono all’abiezione delle mode, delle confraternite, che non si fanno “carne macinata”, al regno degli imperdonabili.

Tutto il passo, scritto in prosa apparente, se posso semplificare così, costituisce commento al bellissimo componimento che qui vi viene dato in apertura “non farmi a pezzi, parola”, costituendo quasi, un esempio dell’antichissimo prosimetron, con cui i poeti amavano incorniciare, spiegandoli, i propri componimenti poetici. Il testo è ironico e coltissimo: vi è ritmo, una musicalità sapientemente interrotta, vicina al rap. La parola è dipinta come un essere indipendente, dotato di vita propria, un tempo capace di allontanare “i mostri legnosi, tignosi”, “miele che guarisce” (come non ricordare Lucrezio, De rerum natura, I, 936-942).

come i medici, quando cercano di somministrare ai fanciulli
l’amaro assenzio, prima cospargono l’orlo
della tazza di biondo e dolce miele,
affinché l’inconsapevole età dei fanciulli ne sia illusa
fino alle labbra e frattanto beva l’amaro
succo d’assenzio, senza che l’inganno nuoccia,
e anzi al contrario in tal modo rifiorisca e torni in salute.

Ora, invece, la parola è “tossica/medicina sbagliata”: a lei fa appello, con cadenze che ricordano Zanzotto, perché ridiventi “gentile”, benedica “i balbettii”, cancelli “i peccati” (innumerevoli altri echi lontani, non esibiti provengono da Dante, Petrarca, i Crepuscolari): ma la chiusa ci riconsegna un io poetico ironico, deciso a rintuzzare il fantasma di una poesia salvifica, consolatoria, che accampa troppi diritti sul poeta come se questi fosse solo un suo tramite (eterno “vate”: e sempre a rischio water, cloaca, “discarica”): “e bussa prima di entrare”, come dire alla poesia “le cose che contano sono anche altre, la vita è altrove (come direbbe Montale), mettiti in coda, non hai privilegi”. D’altra parte il poeta l’ha giurato: “non scriverà di umori/nemmeno con una pistola puntata alla tempia/le parole che arrivano di corsa hanno il fiato corto”.
Il che mi pare una weltanschauung, una poetica gigantesca, nella sua ambivalenza: da un lato un raggio d’azione “corto”, quella quotidianità, immediatezza di cui prima si diceva, del tutto apparente, dall’altro il ricordare che poesia, per l’appunto, è/non è immediatezza, ma, anzi, mediazione: e cesello, e lavoro.
[Chi scrive è tentata di ripetere persino il ritornello “sporco lavoro: e qualcuno lo deve pur fare”].

Lucia Tosi

             

                             

                       

Stefania Crozzoletti (1966) è nata e vive a Isola della Scala (Verona). Ha pubblicato nel 2009 con Fara Editore la silloge Prima Vita (finalista al Concorso letterario Beppe Manfredi Opera prima, ed. 2009) e con Clepsydra Edizioni l’e-book La parte assente. Suoi testi sono contenuti nell’antologia Poetarum Silva, curata da Enzo Campi, Samiszdat 2010; ad aprile 2013 è uscito poco prima della guerra, edito da Kolibris edizioni.