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Eva Sibrontič

12 febbraio 2024

Testi di Eva Sibrontič

VICENDE

A sparpagliare idee ci pensa l’onda
quando al mattino mi risveglio
e mi si accalca il mondo intorno
quasi confusi cielo e terra
appare una figura in una nuvola
attenta al mio respiro
un’ansia mai provata opprime il petto.
Asserragliata dai doveri
aspettando che arrivi ancora notte
accendo il lume della mia pazienza.

Osservo l’ombra scesa sul mio letto
mi libera dagli incubi
sognando al posto mio le cose oscure
io so che nascerà di nuovo il sole
e tornerà la luce nella mente.

*

CHIMERA

Solitaria frazionata a scaglie
occhi smeraldo infissi
nell’ oscuro silenzio di una eclissi
e sormontare dossi e
il muso arguto e l’anima di un gatto.
Guizzanti sottopelle
forze sospette e pliche disarmoniche
nel cavo della notte un gorgoglio
di pipistrello.

Artiglia idee raminghe
con poderosa presa
scansa la notte depistando cieli
appende sogni nelle sue caverne
sogni di fiera
nera.

*

COLORATO

rivestito di folgori e fiori
un respiro che sfida l’eterno
lungo strade sconnesse.
Nessun fuoco divampa
sui campi di grano e di sangue
sono morti gli eroi d’ogni tempo

e su un fosso riempito di notte
una prefica spande il suo lutto.

*

DI TUTTE LE STRADE

del tempo
del gran labirinto del mondo
sappiamo soltanto
il sentiero dell’io.
Viviamo asintoticamente
la sfera del mondo.

*

FANNO LUCE

Fanno luce negli angoli cuciti
chiudono fori e pause
le parole che formano poesia
si adattano allo spazio della vita
serrano lastre di finestre rotte
sulle macerie del dolore.
A volte come fossero ritagli
di pensieri scomposti
svolazzano sul bianco delle pagine
chiosano giorni aguzzi
e notti spoglie.

*

I GENERALI

I generali sul piede di guerra
non fanno andare gli uomini a morire
fosse di fresca terra a pertinenza.
Titolari di nastri e di mostrine
comandano gli eserciti a sparare
danno disposizioni belliche
dalle stanze strategiche
dove non giunge il sangue
e gli ammazzati sono nomi scritti
sulle piastrine del silenzio.
Mentre sfilano bande di grancasse
sotto podi bandiere e pance grasse
perfino i marmi piangono il dolore
erano figli e padri
l’amore aveva i nomi delle madri
le carezze di amanti
negli occhi e nelle mani.
Ciò che resta è soltanto una medaglia
a ricordare morti senza senso.

*

*

In questa raccolta autopubblicata, l’autrice scrive del sociale come esito della follia degli apparati, e del personale come appartenenza al comune destino degli esseri umani. Scrittura lucida e sintetica, che va al cuore delle vicende e delle emozioni relative. Queste ultime scaturite dalla consapevolezza della tessitura coattive delle regole e dello sfruttamento dei deboli,    nell’assoggettamento non solo dei corpi ma anche delle coscienze.

La sfera dei sentimenti viene sfiorata con leggerezza, le vicende personali quasi marginali, in una sospensione onirica soffusa di filosofia e qualche guizzo esoterico, e le parole

“…A volte come fossero ritagli

di pensieri scomposti

svolazzano sul bianco delle pagine

chiosano giorni aguzzi

e notti spoglie.”

(dalla prefazione di Nives Corbati)

*

Eva Sibrontič è nata a Trieste nel 1984, da madre italiana e padre di origini slave. Ha frequentato corsi universitari di lettere e filosofia senza giungere alla laurea. Si è trasferita, per lavoro, in un contesto rurale, dove si occupa della raccolta di erbe selvatiche di cui studia le proprietà curative e cosmetiche. Scrive poesie, appunti farmacologici, e dà lezioni private di solfeggio e pianoforte.

Angelo Restaino

26 gennaio 2024

Angelo Restaino

Angelo Restaino inediti

.

Sui Lattari

Sulla prua verdesole dei Lattari
un lento fronte d’onda di foschia
incombe come incombe una corona.
Richiami e qualche sparo che si fondono
col tuono senza luogo di un aereo.
Un silenzio di cicale mi sfonda
le orecchie: lo stridìo di ritorno
quando Dio parla troppo vicino.

***

Settembre

Settembre è questa luce che si sfibra
ancora lunga e viva;
nelle cucine accese sui crepuscoli
amici c’inseguiamo
come fantasmi. In quell’azzurro cupo
stanno già preparando
il fondo di cottura dell’inverno.

***

Cavalli a via Plebiscito

La chiostra del fornello ride azzurra
col suo costante soffio di lucerna
e formula un’ipotesi di casa
e di calore proprio qui di fronte
oltre il vasto fossato del cortile.
Calore, proprio come se servisse.

Sul limitare dell’anello esterno
del quartiere di porta Garibaldi
si riposa qualcosa di vibratile,
vele d’ombra calanti dalla volta
di alberi, balconi ed altri aggetti.
Segni di vite nascoste a proteggersi
dal caldo, intente a risparmiare liquidi.

Dietro le svolte scoccano riverberi
numinosi, ambulanze, zanzariere,
pantografi stridenti nelle curve,
né posso escludere un roveto ardente:
ogni tre giorni brucia un cassonetto.
Dio se vuole si serve di piromani
per far tuonare l’ego sum qui sum.

Vagisce il vuoto nelle linee d’aria
tropicali che imboscano pantere,
a tratti a tratti implodono boati.
Il lume di una dinamo traluccica
all’orizzonte, sembra un fuoco fatuo.
Immergo faccia e collo nel lavabo
colmo d’acqua, spalanco bene gli occhi.

Su via Plebiscito rombano i cavalli.

***

Prova di coraggio

La sera è un guscio vuoto dentro al mosto
che si aggruma. Risalgono le ombre
su dalle sostruzioni del castello
diroccate. Lì dentro s’inscenarono
sassaiole, riti d’iniziazione –
le prove di coraggio consistevano
nel reggere la vista del cadavere
tutt’ossa del maestro col pizzetto
rosso ancora attaccato alla mascella.
Ridergli in faccia, andarglielo a tirare.

(non c’era alcun orrore, solo ridere.)

L’erba estiva fragrava nel tramonto,
in quest’aria di canti che si abbruna…

(Dispiace, ma rinascere è un azzardo,
affrontare di nuovo quest’amore
che porta dentro tutta questa morte.)

***

Riflessione sul pomeriggio

Il pomeriggio è una fuga di stanze
che sembra infinita.
Ognuna ha una finestra su un cortile,
tutte su un solo lato.
Una televisione
trasmette un quiz al piano sopra o sotto,
di quando in quando voci di bambini,
un tinnìo di bottiglia.
Vi entra luce riflessa
che non aumenta né tramonta mai.
Poi si arriva ad una stanza sul mare
con una sdraio aperta
e mattonelle di quand’eri piccolo.
Quello che c’era prima
era la vita, niente
di preciso.

*

Angelo Restaino è nato a Salerno nel 1982. Ha vissuto a Catania e a Pescara, ora vive a Roma. Vorrebbe vivere in molti altri posti, a Siena, per esempio. In ciascuno di questi luoghi, comunque, e in altri ancora, costantemente risiede, avendoci lasciato una porzione di cuore. Di mestiere paleografo e archivista, dopo vari anni da freelance – in cui si è dedicato anche all’associazionismo professionale – lavora al momento all’Archivio di Stato di Roma e all’Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle Biblioteche Italiane. Ha esordito in versi nel 2021 con la raccolta Contrada dello Zodiaco per Fallone Editore. Nel 2023 si è classificato primo alla IX edizione del Premio Terra di Virgilio. Segnalato ai premi Lucini nel 2020 e Giorgi nel 2021, suoi testi sono comparsi nelle riviste Poeti e Poesia e Le voci della luna, nel volume collettivo Distanze Obliterate. Generazioni di poesie sulla rete (Puntoacapo, 2021) e online su Poesia ultracontemporanea, La morte per acqua, Atelier, Il Multiperso, La poesia e lo spirito. Nel 2023 la sua silloge inedita Estate metafisica, vincitrice del Premio Renato Giorgi, è stata pubblicata da Qudu Libri. Ha insegnato paleografia latina per diversi anni e pubblicato anche alcuni articoli scientifici nel suo campo di studio e di lavoro, e collaborato alla redazione di cataloghi di manoscritti; ma meno di quanto avrebbe dovuto, perché gli costa molta, molta fatica.

***

Pietro Edoardo Mallegni

28 novembre 2023

Profumo di liquirizia copertina Pietro Edoardo Mallegni (1)

Dalla prefazione di Stefania Di Leo

Profumo di liquirizia di Pietro Edoardo Mallegni è un libro dall’atmosfera crepuscolare, è quasi sempre una descrizione di quotidianità ed esperienza individuale venata di malinconia. I versi sono liberi, il tono lirico, le descrizioni fortemente sensoriali. Pietro cerca solamente tranquilli angoli del mondo e luoghi conosciuti dell’anima in cui rifugiarsi.

Ma questo impegnarsi a vivere, / questo sentirsi ecosistema / contare i giorni come / ingredienti di una spesa.

La sua è una poesia colta, caratterizzata da una concisione assoluta e da un linguaggio preciso, anche se mai oscuro o criptico, in perfetto equilibrio tra estremi diversi. Tra echi simbolisti e
lampi surreali, utilizza l’ironia per creare un universo metaforico popolato di dettagli e colori precisi, vividi, esatti. E dunque la poesia diventa nel giovanissimo Pietro una compensazione e, rispetto al mondo circostante, la necessità di colmare un vuoto. Un richiamo ad un mondo esotico rispetto al suo mondo presente, la poesia diventa per Pietro Mallegni irrinunciabile forma per percepire il mondo e relazionarsi con esso in una dimensione profonda e nascosta, più soddisfacente.

Un’ironia assoluta: / il desiderio della longevità, / nell’era dell’abbondanza. / Sia luce ai coltivatori di dolore e, / dalla terra che, presidi e scrittori / hanno sublimato, si canti / “ è nato qualcosa”. / Morte e sgomento, / mai si attaccarono a qualcosa,/ che non fosse nato. […]

[…] La tensione poetica ed il gioco metaforico, la speculazione della singola parola, gli interrogativi posti alla vita e al suo senso definitivo si fanno più urgenti, come è evidente in questa raccolta
poetica, nella quale appare l’ansia di rinchiudere il coacervo di indomabili contraddizioni dell’esistere in un nome che, come è richiesto alla poesia, sia non ancora avvertito prima della rivelazione poetica. […]”  Stefania Di Leo

testi scelti

Di me, la miseria si è innamorata,
“m’ama e non m’ama” fa,
i miei capelli usando come petali,
detestandomi piano
per la crescente calvizie.
Una confusione di animali,
alla musica si è sostituita,
acque bollenti e violini schiantati;
si, ho pagato i miei debiti con l’ansia,
con la paraffina e l’ibuprofene;
le idee bussano alle porte della gola
ed ogni mattina mi reinvento
questo lugubre moderno,
gli argenti mascherati
e le ustioni sulla fronte.

Anonimo ricordo che sono,
nelle vostre teste,
a voi accanto, sfiorando le baite,
vicino alle nuvole dei vostri sguardi:
i vostri vuoti “tutto d’insieme”.

*

Aspira forte l’odore di sole,
lische, vuoti gusci bivalvi,
becchi di totano,
a fondersi sui sentieri,
con le mie promiscuità.

Ombre e nebbie,
e sterlizie di sole:
l’immaginario della rovina,
trascendere il bisogno d’acqua,
rinunciare alla cioccolata e scordarsi i nomi delle stelle,
sul cielo, i ricordi a venire.

Strana è la vergogna:
come, in frigo, i corbezzoli,
a fianco di cicale e acciughe,
sono il mio consenso all’intraducibile.
Sordo e cieco e con parole perse,
sparse per il mio essere,
come nelle favole,
per ritrovare casa.

*

Un vestito e un prisma,
questa mia pelle che si scuce,
e colleziona vuoti.
Fibbie, insetti e organi di tempo
e ripetersi.

Ripetersi,
nei giorni e negli anni;
cambiarsi gli occhi,
pensare alla realtà:
una claustrofobia ramificata.
Nel palmo, il futuro e le sigarette
(Linee vitali e grafici azionari)

Un avvenire sporco,
riciclato. Fatto di pezzi
di oggi, incastrati nei miei sogni.

Etica e imbarazzo,
ossa voraci, denti malati,
poca saggezza.

*

La vecchiaia ha i capelli tinti di rosso,
tutti i giorni si siede sul lungomare e tinge
di vermiglio le guance dei bambini,
che urlano e sorridono e diventano
“tramonti da togliere”.

La mia cenere si disgrega,
con troppa facilità la mia delusione
è diventata miope,
vedendo banani morenti innestati,
al fianco, di pini che si attorcigliano e
che diventano case, solo, per la muffa.

Mi rimane solo un mare di inconcludenza,
dove pescare e nuotare; il mio sguardo
incontra solo occhi incapaci di raccontarsi,
cercano, senza rimedio quella cavità
nel mondo dove riconoscersi.

I denti che sanguinano,
i capelli che cadono,
le ossa rotte,
gli occhi che non mi rispondono:
il mondo raccoglie pezzi,
per ricostruirmi altrove.

In questo disegno malsano,
distrutto e dimenticato,
forse, mi vedrei desiderabile.

*

Un riflesso spento, di baffi e tristezza,
quello che vedo su scaglie di pesce
che canta il sole come fosse
un demonio.

Una barbarie di carta e cristalli
rifugge tra le pazzie degli impasti
e si scrolla di dosso quella vecchia
tunica di velluto chiamata domani.
Tutto il senso di eterno
del vuoto che mi circonda.

Un occhio di madre che deraglia
le sue lacrime in questi rigagnoli
di sangue, condensati su freddo acciaio.

*

Dilania l’altrove dentro di me,
neutro collagene che lega i miei tratti
con desideri di terre lontane e spezie rituali.

Fumi iridescenti alimentano il riciclo di me;
macigni e carbone si sperperano
fra i crepacci della mia anima,

dove esploratori onirici vengono
a tuffarsi dai pendii per falciare piante
e fiori da riportare a casa per scordare cosa è stato.

Un mare ingrato e freddo è
la superficie della mia volontà,
infruttuosa cadenza delle onde
che scandiscono il ritmo ubriaco
dell’odio per me stesso.

Tornano solo stolti marinai dai miei inferi,
per fare l’amore con povere illusioni e
inebriarsi delle mancanze erronee di giorni passati.

*

Umano peggiorare,
questo è il dimenticabile
avvenire notturno
che mi riservo.

Ostinarsi a vivere,
sentirsi parte di un tutto,
di un genere,
come santi e beati.

Il fervore dell’assenza
è il migliore cipiglio
al quale dare
il mio guaire.

Permane solo una goccia,
un ricordo del mio resistere
novizio alla vita.

*

Era un odore di pane il mio, di mais dolce
tostato e ferrosa sensazione
di maternità e asfalto.

Gusti che si tradiscono, questi anni sono
e storie di vino e di bruttezze
che ci descrivono.

Era la luce del sole che satura un orto
in corte nascosto dal lusso, su un’isola
di donne impazzite a Venezia.

Era una Praga, piena di giorni di ottobre,
mese che luccica in questi bicchieri
e riempie i pensieri con mele e verdi limoni.

Un colino di magie grandi, capperi e
alluminio e sale sparsi ovunque.
La penna vicino alla planetaria
e fogli sporchi di tartaro e carbone.

Era lavorare ed era distrazione;
è il profumo di una stanza coperta

di cotone bianco, macchine
da cucire e legno di ciliegio;
è un granito povero, freddo e scarno
che nessuno vuole sui pavimenti di casa
o nelle tasche dei propri figli.

*

Dalla postfazione di Irène Duboeuf

[…] Pietro Edoardo Mallegni è ossessionato dalla mancanza, dall’assenza, dal vuoto, dalla morte. Ci aveva avvertito: ci ha fatto entrare nel suo libro accompagnato dalla citazione di Tomasi
di Lampedusa tratta dal Gattopardo: «Desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di Scorzonera o di Cannella.» Il poeta domina l’arte di comporre i versi come lo farebbe per un pranzo gastronomico: sollecitando tutti i sensi, la vista, i profumi, il gusto, intrecciando con maestria l’arte culinaria e l’arte letteraria con audace eleganza, senso lirico e disincanto. […] Irène Duboeuf

***

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Pietro Edoardo Mallegni è nato a Carrara l’1 luglio 1995. Fin da piccolo nutre due grandi passioni: la cucina e la scrittura. Nel 2013 ha pubblicato con la casa editrice“ Marco del Bucchia” la sua prima raccolta:“ Il dedalo in me”, e vince il premio “Michele Mazzella” con l’atto unico “ Geshua e il crollo dell’io”, nel 2015 pubblica un’altra raccolta intitolata “ Il Dio Dada”. Tra il 2019 e il 2021, partecipa a diverse antologie curate da Ivan Pozzoni per la casa editrice “ Limina Mentis “ inoltre ottiene alcuni riconoscimenti e pubblica due raccolte di poesia intitolate “Neurocidio” e “Il nulla”, rispettivamente pubblicate con le case editrici “Limina Mentis” ed “Europa Edizioni”. Tra il 2021 e il 2022 suoi vari testi vengono pubblicati su diverse testate giornalistiche online e tradotti in varie lingue tra cui inglese, francese, spagnolo, arabo e cinese.

Annamaria Ferramosca

15 ottobre 2023

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Maria Lenti

Nota di lettura a:

Annamaria Ferramosca, Luoghi sospesi, nota di Elio Grasso, ed. puntoacapo 2023, pp. 102

Un inno alla terra con i suoi abitanti, tutti: animati e inanimati, animati del fiato della vita, inanimati ma vivi nel ciclo di cui sono e fanno parte. E, nel canto di Luoghi sospesi, ultima pubblicazione poetica di Annamaria Ferramosca, si snodano le interrogazioni, le domande sul vivere, sull’amore che fa agire le creature tutte (anche i fili di erba, i granelli di sabbia, le gocce del mare: “un’onda, un fiore, un’ala, una conchiglia”, p. 45), sul come non portarle a distruzione e alla morte, sulla necessità della loro conservazione, sul desiderio di una immortalità di questa aiola che pure ci vede feroci.

E, riprendendo i titoli delle sezioni del libro, in cui si fa teatro, si scruta di là dal vetro, si guarda fuori della finestra, ci si ritrova con un nulla d’amore. Eppure alla fine sarà come vincere. Se, naturalmente e nel profondo, lo avremo desiderato e voluto nel filo unito tra corpo e mente, mente e animo, persone e cose, se questi luoghi sospesi troveranno il loro stare e uno stare per avere il quale il genere consapevole avrà usato discernimento e, appunto, consapevolezza.

Questa dinamica poetica va ricercata, ma la cosa è ovvia almeno secondo la mia lettura trattandosi di scrittura e di poesia, in versi e in parole composte e ri-composte, scomposte e riprese, direi ri-compitate (“iniziofineiniziofineinizio”, “d-io”, “re-ale”, “dis-ordinata”, “dis-orientata”, “dis-turbata”, “r-esistere”: qualche esempio, talora al limite di una sperimentazione azzardata) quasi alla ricerca di significati più profondi, di estensioni semantiche, come ad afferrare un’essenza vitale ed esistenziale sfuggente o che chiede di essere chiarita per amore della sua intrinsecità, per il mistero di inizio e di fine che l’avvolge. (Leopardi docet: e Ferramosca lo richiama a p. 28).

Il libro, che ha vinto il Premio Voci Città di Roma 2021, si pone sulla linea dei precedenti che conosco (Ciclica, 2014; Per segni accesi, 2021), ampliando la voce interiore così come amplia l’orizzonte che la raccoglie e la proietta all’esterno per una durata oltre il presente e oltre il dicibile (“scrivo perché resti dell’umano / almeno un seme / minuscola meteora / graffito vagante nelle galassia / per un domani traccia chissà se traducibile / di homo – il nome deriva da humus / umile materia terrestre –”, p. 59): con una fiducia nella poesia giusto il suo etimo.

Questo moto-movimento è ravvisabile nel movimento stilistico calato anche nel corsivo, quasi il riflesso, un’eco, uno specchio cui affidare la risposta alle domande, alla memoria, alla ferialità, al proprio passato (quando i luoghi erano, per innocenza, sospesi: p. 46), alla relazione interumana (“sentiamoci in cerchio”, p. 79), al pensiero sconvolto dagli avvenimenti e portato alla chiarezza: per la vivenza e la continuità anche sua, del pensiero stesso.

Maria Lenti

vita o come
chiamarla con altro nome?
moto imperfetto che s’incarna
di bellezza e miseria?
per quale oscura ragione?
segreto senso senza direzione
fuori dal tempo?

il tempo sa come dissolvere i corpi
modificare il soma addensare
vocabolari coi nomi del paesaggio
il tempo vede l’armonioso concerto
tutto questo felice dispiegarsi di
fisica chimica biologia

ho letto cento libri di scienza della vita
oh natura quanta buona invidia
dei tuoi segni natura
ovunque protesa
verso arcani di bellezza natura
arca inspiegata

***

se fosse
pura coincidenza di parametri
a tendere
l’arco innocente della vicenda
solo un’aria giovane
profumo d’alga iniziale
turbolenza di fango
confuso ancora
tra humus di stelle e tufo di conchiglie

se fosse
amore solo un’eco parallela
armonia di due eliche abbracciate
a punteggiare
di luci-amplesso il mare
diffusa spuma di desiderio
su questo territorio selvatico di antenne
ubiqua voce
– ti ho vista, tu mi hai visto
il tuo ventre si inarca
e mi conosco padre
n questo coraggio largo dispiegato in vela
mio figlio sicuro deve adagiarsi
nel rito lento della discendenza
io pronto al mio scarno imprinting
io accanto a insegnargli
l’estrema dignità delle parole

***
fuori dalla finestra
dove si mostra il mondo
guardo in ginocchio ascolto

accade a volte
che irrompano (non le sentite?)
note di musica ineffabile
la stessa perfezione armonica
di un’onda un fiore un’ala una conchiglia

e riconosco e imparo
il duro limite della parola
gli scogli miei su cui s’infrange si ritrae
il grande mare euritmico
che pure mi lambisce

perchè non siamo quel bambino
che al ritmo si dondola felice?
essere solo puro movimento
un’onda dei suoi riccioli al vento
leggeri farci trascinare
verso indicibili
luoghi sospesi

questo il segreto senso della musica?
universale accordoincontro
mai urto solo morbido contatto
come dentro gli spazi caldi
della prenascita

***

forse è nel sentire il senso
sentire benevolenza salire dalla terra
sentire come largo l’amore scorre
come plasma corpomenteparola
come emoziona perfino l’acqua l’aria
come muove la pietra

sentire prossimità in ogni creatura
sentire il suo sfolgorio il suo declino
sentire tutta la mite materia terrestre
ogni volta rinascere mite

e tu sentirti il nativo
appena uscito dalla foresta
ne conservi il profumo
serrati gli occhi a fermare
all’orizzonte
tutto quell’oro che lampeggia

*

annamaria ferramoscaAnnamaria Ferramosca è biologa e autrice e divulgatrice di poesia. Ha pubblicato: Luoghi Sospesi (Puntoacapo 2023, nota di Elio Grasso), Per segni accesi (Ladolfi 2021, introd.ne di M.Grazia Calandrone), Andare per salti (Arcipelago Itaca 2017), Trittici-Il segno e la parola (DotcomPress 2016), Ciclica ( La Vita Felice 2014, pref.ne di Manuel Cohen), Other Signs, Other Circles – Selected Poems 1990-2009 (Chelsea Editions 2009, trad.ne di Anamaría Crowe Serrano e Riccardo Duranti), Curve di livello (Marsilio 2006, Paso Doble (Empiria 2006, coautrice A. Crowe Serrano), La Poesia Anima Mundi (Puntoacapo 2011), Porte/Doors (Edizioni del Leone 2002, pref.ne di Paolo Ruffilli), Il versante vero (Fermenti 1999, introd.ne di Plinio Perilli). E’ presente nelle antologie: Aria di casa, a cura di Donato Valli (Congedo 2005), Blanc de ta nuque I e II vol.(Le Voci della Luna 2011 e 2016), Poeti e Poetiche, a cura di Gianmario Lucini (CFR 2012), Il fiore della Poesia Italiana – I Contemporanei (Puntoacapo 2016), Fuochi Complici, a cura di Marco Ercolani (Il Leggio 2019), Anni di Poesia 1985-2019, a cura di Elio Grasso (Puntoacapo 2020), Sud I Poeti vol.13, monografico, a cura di Bonifacio Vincenzi (Macabor 2022). Ha al suo attivo collaborazioni e contributi creativi e critici con vari siti e riviste nazionali e internazionali di poesia. È stata ideatrice e per molti anni curatrice della rubrica Poesia Condivisa nel portale poesia2 punto0, da cui ha diffuso poesia di autori noti da tutto il mondo. Ambasciatrice di Poetry Sound Library (mappa sonora mondiale delle voci poetiche nel web) per Italia e Puglia, è curatrice di progetti sinestetici di poesia con musica, danza, pittura.  Più volte finalista e selezionata in premi per la poesia edita (Camaiore, Pagliarani, Pascoli, LericiPea, Montano, Europa in Versi, è vincitrice dei premi Guido Gozzano, Renato Giorgi, Astrolabio, Voci Città di Roma. Nel 2022 le viene assegnato il Premio alla Carriera “Paesaggio Interiore”. Suoi testi sono stati tradotti in inglese, rumeno, spagnolo, greco, turco e arabo per riviste straniere e sono di recente pubblicazione il volume di poesie:Volver a escribir la vida per Abisinia Editorial, BuenosAires,2023 (trad.ne di Antonio Nazzaro) e la plaquette Va veni Oceanul per Editura Cosmopoli 2023 (trad.ne in romeno di Eliza Macadan). Website: www.annamariaferramosca.it

Maria Lenti scrittrice e poetessa website qui

Miro Gabriele

2 ottobre 2023
Miro Gabriele

photo Miro Gabriele

*

Inediti di Miro Gabriele

QUEL CHE NON È STATO

Per quel che non è stato
per come è luminoso il vuoto
per come è sorprendente il mondo
un filo sottilissimo ci stringe
(ormai spezzato già, dimenticato)
a questi pochi versi senza gloria.

*

VERSO IL DESERTO

Lungo lo schioccare delle bocce
(centimetri lentissimi di gioco
protratti con divina noia, smaterializzati)
sul rettangolo infinito
la notte scende con abiti di polvere
io e Marco a fondo nella piccola luce
sotto l’ulivo nel buio africano
scivoliamo immensi silenziosi
insieme ai ricordi ai minuti
che fuggono verso il deserto

da qualche parte oltre le montagne azzurre
dorme un dolore che non conosco
qualcuno ha trovato rifugio nel sogno
ancora una volta resto a vegliare
tranquillo, paziente
con queste prime stelle.

*

NOI

Il cuore alberga nei refoli più leggeri
negli anni sfilacciati come coriandoli, per aria
colori che si frantumano come nei sogni
che ognuno attraversa in solitudine
antiche scene ripercorse nella memoria
sempre differenti piene di sorprese
ognuno stringe un angolo che non conosce
perché l’immaginaria geometria
continua a muoversi in mondi sconosciuti, crea
spazi impensabili non appena ci voltiamo

il senso è un’infinità corsa, non avrà termine
finché dureranno luce e cuore e ombre
carezzevoli di assenti ancora con noi,
oltre quel margine dove non si vede
continueremo a parlare d’amore.

*

UNA FERMATA DEL TRAM

Irrimediabile malinconia
la città che non esiste più
e spinge il cuore ai margini,
una figura in rosso una piazza
abbandonata come tante altre
nel buio del ricordo,
un tram verde una fermata nel tempo
come salvarli da tutto quel vuoto?

e i volti, i volti scomparsi dietro i vetri
sussurrano ancora: eravamo qui
l’uno accanto all’altro senza sapere
nella tenera e perduta magia
di un giorno scivolato via
ci ritroviamo oltre la pena tutti
in un abbraccio che non finisce più.

*

MIRO GABRIELE vive a Roma. Ha pubblicato “Odi et amo” Ianua 1988, una traduzione di poesie di Catullo con prefazione di Luca Canali, e “Il Gaio Verso” Ianua 1992, antologia di autori latini. È stato inserito da Luca Canali in “I poeti della ginestra”, Lalli 1989. Ha vinto il premio internazionale Eugenio Montale nel 1992, ed è presente in “Sette poeti del premio Montale”, Scheiwiller 1993. Compare in “Vent’anni di poesia” 1982 – 2002, a cura di Maria Luisa Spaziani, Passigli 2002. Nel 2004 ha pubblicato il romanzo “La Vita Incerta”, Valter Casini Editore. E’ autore, con Anna Maria Giannetto, del testo di latino per i licei “Navigare”, Zanichelli 2006. E’ stato finalista del Premio Lorenzo Montano nel 2006 e 2008. Nel 2014 ha pubblicato “Le città antiche e altre poesie” GBE Editoria, con prefazione di Alessandro Fo, segnalato al premio Montano 2015. Nel 2019 è uscito “Dentro lo sguardo” Ensemble edizioni. Del 2022 è “Vertiginosa Erba” Ensemble edizioni.

Paolo Pistoletti: “Al di qua di noi”

10 luglio 2023

dalla prefazione di Fabio Franzin:

[…] … in Paolo c’è la voglia, e il dolore, di far affiorare le sue parole dalle esperienze concrete, vissute nella propria carne, piuttosto che, da pur profonde, ma sempre algide e insufficienti, letture, per trasferire sulla carta una poesia che parli dell’umano all’umano.

[…] La raccolta è, apparentemente, scritta in una lingua piana, o appena saliscesa come le sue colline La scrittura di Pistoletti non cerca di accalappiare il lettore con giochi di parole o versi ad effetto però è disseminata di invenzioni linguistiche notevoli (cui qui se n’è riportato solo qualche accenno), e di un mood, di un basso continuo che tiene la voce, trepida e quasi tremante, dentro l’aria di un inverno dell’anima, fra boschi e rotaie, neve e ze memorie e mancanze.  (Fabio Franzin)

Al di qua di noi

Al di qua di noi – Paolo Pistoletti – Arcipelagoitaca ed. 2023

alcuni testi scelti

[da dietro al sole]

Rami che fanno i rami, foglie
le foglie.
Negli spazi rimasti dentro
come bambini
che ci vegliano dall’altro capo del sonno
che ci fanno ridere il sole
di qua dai disegni.
Di chi come te
non se la prende più, di chi come te
non hai più lacrime.
Adesso che in nessun posto sei
porta
i fiumi i prati negli occhi, la terra
porta della morte
il cielo della vita, l’aria porta
della nostra
casa da sogno.

*

[dalla terza croce]

Dal tuo ritratto
ti sei
fino all’ombra.
Come ogni albero sogna
altri alberi
dall’altra parte del mondo.
Ricordati di chi quando sarai
continuaci da dietro la terra
la paglia la pietra
la nostra casa una casa sempre più grande
in fondo agli occhi
di noi bambini dove ci nasconde la nostra
stanza di qua
come una vita immensa. Dal bianco del tuo già
ma non ancora, ricordati di chi
sta da qui
dentro questa
strana presenza, che noi
ti siamo.

*

Ho comprato un campo con mio fratello non so
quanti anni fa.
Un campo a metà si diceva
che lo facevamo per i nostri figli
ma va’ a capire se stanno così le cose.
Un campo più in alto
delle nostre case
ecco guarda i tetti.
Quanti metri fa
un ettaro è impressionante
certo almeno questo adesso
è più chiaro da quassù.
Tanto che se fai diecimila passi
tutto intorno credo quasi
che ci sei. Ecco io credo
acqua fuocherello fuoco così tanto
che quasi ci sei.
Ho comprato un campo ma quanto
tempo fa non so
se ci sei. Un campo a metà
quanto fa un ettaro diviso due.
Cinquemila passi in meno
che io credo se tu tanto
non ci sei. Da di qua
di questa terra ho comprato un campo
che non so. Nel mentre
avrei voluto piantare qui
la nostra tenda tu
che continuerai
a trovare strano che non c’è
dimora. Nessun fondo
nel per sempre mai. Ma solo
un campo d’erba che ti sfiora
e non ti sfiora mentre ci sei
e non ci sei.

*

___________________   davvero con mio padre

Dai nostri maglioni portati
come allora davvero da lì
come un tempo dalle spalle
fino a dentro che io mi ricordo di noi due
in auto
le quattro stagioni di Vivaldi
ma di più l’inverno in fondo
a quell’anno che tu sei
al volante.

L’autovox che ci faceva girare
il nastro del concerto
il nostro essere eseguito
nell’esserci del 1980.
All’interno già tutto
intorno alle fiancate
a imperversare come gettati lì
dal sempre.

Come in un punto da quella parte
per orchestra dopo
il quartetto in fa minore
la luce che proviene dallo schermo della radio insieme
al suono. Dal buio dei legni
a ogni strumento dagli alberi
ma agli archi di più
all’orecchio che tendevamo

sempre più fino
dentro la macchia fatta così a cassa armonica
di pino del nord. Colla nostra
fiat 131 diesel che vibrava
dentro fuori dalle portiere
toccando certe corde
un andarsene larghissimo
come la neve con quell’aria
che ti ricomponevi
una volta uscito dal nostro abitacolo.

Non ancora gelo ma quasi gelo
ma quasi notte già in pieno
solstizio. Poi per il resto non lo so.
Non capivamo nulla dei dettagli certo
comunque un altro io si sentiva
che era la sua tonalità che anche se
in chiave diversa tutto era stato
accordato già.

Una scala di note come corvi neri via dai rami
sullo sfondo bianco un pentagramma quasi vuoto.
Quante crome in volo dal basso
di clavicembalo all’assolo.
Ma non si pensava ci fosse rimasto
così poco per chi
come te
dicembre era
un brano in crescendo, la partitura dopo
la requie, il tuo movimento
fino al finale del bosco in piedi.
Qualcosa, come un ultimo applauso.

*

Inseguire il grande sogno della nostra casa
dalla nostra vecchia casa
ogni sera.
Abitare a ridosso della stazione da una vita
da una vita. In fondo al sonno profondo
della pietra del ferro del legno
della ghiaia, dall’appartamento fino all’officina.

Come due volte ombre
rivedere
mio nonno capostazione
con mio padre ferroviere con mio nonno
che un tempo ci passava a trovare.
Si può viaggiare anche così
lui sembrava dire, lui sembrava dire.

Dal di qua
del dormire come quasi morire, dal dimenticare
dal destarsi al ricordare
dal modo come rientrare
prima di uscire ancora
dalle proprie mura.
Per poi ricominciare.

*

Dentro ogni treno che parte un altro treno
ci ha fatto restare
un sogno la vita.

Dentro un altro diretto
da quale regia
in cabina da dietro
il dormiveglia. Un tempo che si fa spazio
in testa circolo
occhio artico dal centro
di Hannover. A fare da schermo
a un retroscena. Dalla fine
dei maglioni e dei jeans
come andavano allora.
Dal fondo dell’inverno
tra noi e noi.
In ogni fotogramma
ripercorsi da ogni io

come in un lungo lentissimo metraggio.
Ogni volta riavvolti
in trama noi. Una carrozza
tutta finestre e corpi sui vetri
così sottili da ritornarci indietro
sempre da qui
dal didentro dappertutto

siamo qua
un riflesso
fissi dentro uno sguardo
che ci guardava
come gli angeli nei film.
Siamo qua che si vedeva e non si vedeva
il cielo sopra Berlino
senza un riparo
dalle nostre fattezze che non siamo, ovunque, mai.

*

Paolo  Pistoletti

Paolo Pistoletti lavora nella biblioteca comunale di Umbertide. Terminati gli studi in Giurisprudenza e in Teologia ha continuato ad approfondire i contenuti di alcune correnti spirituali d’oriente e d’occidente, ampliando, allo stesso tempo, la sua ricerca poetica. Nel corso degli ultimi anni suoi contributi, sulla poesia e la parola, sono stati pubblicati da Fara Editore e dalle Edizioni CFR. É stato condirettore della collana di scrittura, musica e immagine “La pupilla di Baudelaire” della casa editrice Le loup des steppes. In poesia ha pubblicato Legni (Ladolfi Editore, 2014 – Premio “Oreste Pelagatti” 2015), il libro d’arte Borgo San Giovanni (Fiori di Torchio, Seregn de la memoria, 2018). Al di qua di noi (Arcipelago itaca Edizioni, 2023) è la sua ultima raccolta.

Loriana d’Ari, inediti

24 Maggio 2023
On Waking Dreams 2006 S. Burnstine

Photo Susan Burnstine On Waking Dreams 2006

Inediti di Loriana d’Ari

non sono lievi i voli arresi a dissolversi
inoltrano il bianco dell’alba nel colmo
di luce, nell’amplesso dei morti
a venire, musica di cortili a ricreazione
di qua dal nome che dice
possesso che dice appropriazione
l’attrito a stento percepito di antenne
piumose e ali di velluto. trattengo il fiato
per le creature affacciate alla soglia
di quel che nasce, che sbroglia la sua
rete a fili torti e maglie larghe.
una crisalide di frulli di falene sgrana
da un buio trasparente sottopelle
la nudità di tutto quello che disperde

*

La donna stambecco

la s’indovina di notte dal biancore
della schiena, quasi un’altra concrezione
calcarea o formazione lattescente.
ma trascorre oscuramente nella coltre che
s’allenta e cede quando inarca
la fionda dei tendini ed è nuda la donna
stambecco ora spicca non resta che la scia
dei cristalli  di salgemma  e come brilla
_____ lassù in alto il precipizio

*

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Photo Susan Burnstine

.

Le altalene

ognuno ritorna a sera, novembre d’umida carezza
nei rintocchi all’ora di cena.
rincasano gli ultimi, mentre curo la posa dei passi lungo
la scia di foglie cadute, un giallo ocra
che dilava all’avorio della luna.
proprio qui, solo ieri, correvano i bambini.
delle altalene gemelle l’una sembra immobile da sempre
l’altra oscilla, come un pendolo, addolcisce
solo il cigolio, e continua
dondolando
_______senza suono

*

dondola e cede la creatura viva
le tenere ginocchia a questa ghiaia
e brucia il suo fiato minuscolo finché
dischiusa la ferita i lembi tengono
la forma, pelle ____occhi naso bocca e
sanguina, e dondola e dondola e cede
ch’è mai stata sterminata ma densa
in un’ansa di nebbia un’aria spessa
ch’è fatta per le branchie e quando
scalcia rompe l’aria e comincia
ed è l’ora che respira ed è l’ora
che ritorna

*

ritorna l’ora, per quelli emersi.
chiedo degli altri, del loro sonno
invincibile a farci da sfondo, o
resinoso sognarci in forma d’acero
o di metallo scaldato nel palmo.
se non sia vita l’altalena che ci tiene
in bilico tra i mondi, ciondolando
se non sia riassorbito anche il battito
quando frantuma e condensa sul fondo
di questa coalescenza residuale che
non smette di pulsare in ogni altrove

*

Loriana d’Ari vive a Genova, dove lavora come psicoterapeuta. Ha pubblicato su diverse riviste e blog letterari e ricevuto riconoscimenti in occasione di vari concorsi, tra cui il premio Gozzano, Bologna in Lettere, Poesia di Strada. La sua silloge d’esordio, silenzio soglia d’acqua (arcipelago itaca ed. 2021)  è risultata vincitrice del VI premio Arcipelago Itaca per la raccolta inedita di versi (opera prima), ed è stata anche segnalata al premio “Lorenzo Montano.

A Sylvia Plath – dedica di Anna Rita Merico

1 marzo 2023
Sylvia Plath

Sylvia Plath / Bettmann / Getty Imag.

11 febbraio 1963

11 febbraio 2023

di Anna Rita Merico

Sylvia,

ti guardiamo attraverso scatti fotografici. Tra essi intercorrono universi. Scatti in cui sei in America, prossima al matrimonio con Ted Hughes. Radiosa, mondo in mano, penna negli occhi. Volto della nostra contemporaneità. Pensieri nascosti e densi, risata piena su una sabbia calda in cui mostri fattezze e profilo esplosivo. Sei il doppio di ogni nostro percorso espressivo. Un doppio bacato, autentico, espressivo, ombroso.

I tuoi capelli sempre raccolti o mossi, folti… cosa accadeva quando erano intrecciati agli elettrodi? Raccontaci l’ossessione del desiderio e le parole che non hai trovato per narrarci quello stare in croce ad una maternità da cui ti sei sentita sbarrato il passo. Famiglia, ruolo, middle class… narraci la tragedia, oggi. Non è più tragedia consumata nelle regge tra principi, aedi e regine. E’ tragedia che ti è sgusciata all’angolo di una morte impastata di sonniferi, nelle nebbie di Londra, all’interno del tanfo del panico mentre Ted si defila dal fallimento incontenibile del vostro passato stare.

Frieda e Nicholas dormono nell’altra camera, la luce bagnata dell’alba è il momento che cerchi per tornare a scrivere, sola come bestia braccata. Dopo l’abbandono di Ted la tua poesia divampa, ribolle. Sei febbricitante dall’estate, siamo a dicembre: decimi di febbre perpetui o danza acuta di parole sotto la pelle, dentro le cellule, nei labirinti del pensiero?

La casa di Fitzroy Road, al 23, a Primrose Hill, attende che tu metta in ordine scatoloni, riponga tende, prepari cena, rimbocchi coperte ma tu stai lì a difenderti dalla solitudine mentre le parole ti sferzano, schiaffeggiandoti da ogni dove. Immobilizzata tra la vernice che hai acquistato per dipingere le pareti della camera dei bambini e la scrittura che ti porta al laccio. Hai ragione: la Bibbia è quella dei Sogni.

Il piccolo Nick dorme ancora, per fortuna. Le mani vanno al manoscritto, legato in una cartellina… moglie esangue dell’ormai famoso Poeta… cosa ci fa una moglie dentro una poeta? Per Ted… beh, un marito può starci dentro un poeta… se solo tu, Sylvia, avessi fatto il tuo dovere di madre, cucita dentro il tuo ruolo. E’ stata questa la tragedia? Senza regge e senza troni. Dentro ad una cucina. Barricata ad una scrivania senza studio, alla ricerca di un ordine che governi la Furia.

Nick arriva è nel suo pigiamino, grida. Frida è nel lettino accanto, frangetta corta e pugni chiusi. Le tue ossa sono sporche di sangue raggrumato, dai tuoi seni le ultime gocce di latte acquoso. Li prendi entrambi sulle gambe insieme al tuo manoscritto da ultimare. Un coltello ti taglia il cuore mentre muta laceri l’aria con lo sguardo.

Eppure è ora che tu riprenda a scrivere in questi mesi di neve, di gelo, di bianco, di corpo sottile e lavato, schiuso alla speranza. Ha accolto, Ted, questa nuova fede che tu hai sentito per te? Il manoscritto con le pagine per Ariel non è giunto a noi come tu ce lo avevi indicato. E’ forse tutta qui, in questo minuto gesto, il senso di una nostra sia pur piccola comprensione?

Ted ha infilato le mani nel dentro del tuo processo creativo sentendosene padrone perché marito. Quella mattina gli avevi portato il manoscritto completo ma lui, per giorni, non lo aveva guardato. Forse non ne aveva percepito la bollente materia di cui era fatto. O, forse, tanto… pensava di conoscere tutto di te…

Hai atteso risposta. Come hai ingannato il tempo dell’attesa attaccata alla corda del giudizio che doveva giungerti da chi ti aveva raschiata? Una poeta estraniata dal mondo. Quale mondo? Quello vuoto della parola dell’intelletto. Ma tu, Sylvia, di quale parola ci dici quando ci additi il mutismo di una natura che non è silenzio ma radice altra di generazione?

Quegli elettrodi che ti hanno colpito nelle viscere del pensiero hanno, forse, colpito gli occhi di ciò che tutti noi, oggi, stiamo cercando?

***

*

1674345406102Anna Rita Merico vive nel Salento. Originaria di Nola (Napoli). A Nola ha imparato il senso profondo dell’antropologia attraverso l’imponente Festa dei Gigli (patrimonio immateriale U.N.E.S.C.O.), le strade del libero pensiero attraverso lo studio dei due nolani Giordano Bruno e Pomponio Algieri. Laureatasi presso Università Federico II in Filosofia con tesi in Dottrine Politiche sul pensiero di Carla Lonzi che le ha consentito di intraprendere un percorso mai lasciato: quello sulle politiche della soggettività. Ha tenuto insieme due parti importanti della propria attività: l’insegnamento e la ricerca sugli studi legati alla conoscenza del pensiero femminile con particolare riferimento all’epoca contemporanea ed al medioevo. Intensa attività di saggista, collaborazione a riviste e partecipazione a collettanee. Nel corso del tempo lo spazio preso dalla scrittura poetica, pur essendo stato un luogo da sempre praticato, è andato delineandosi come centrale nell’attività creativa di pensiero definendosi come punto d’incontro generativo tra conoscenza filosofica e poesia. Nell’arco produttivo dell’Autrice ha avuto un ruolo centrale la domanda sull’essere della parola e la sua genesi nell’impasto con il silenzio e la spiritualità. Oltre alle sillogi qui raccolte, sempre per Musicaos Editore, ha pubblicato (2020) la raccolta di testi poetici Era un raggio… entrò da Est, e Fenomenologia del silenzio (2022).

Abele Longo

10 febbraio 2023

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ABELE LONGO, Scrittura con vista, Terra d’ulivi edizioni 2023

Nota empatica di Annamaria Ferramosca

Umanissimi mondi al di là del vetro

Osservare dalla finestra è azione colma di aspettative e visioni inattese che a volte possono rasentare il prodigioso. L’evento può accadere abitualmente ad un poeta come Dylan Thomas dal suo capanno di Laugharne o anche ad una bambina che guarda fuori dalla sua finestra quel capanno o forse il mondo di là dal vetro interrogandosi sulla vita il suo scorrere. Leggendo queste poesie di Scrittura con vista di Abele Longo mi sono anch’io riconosciuta in questo avido sguardo interrogante e ho compreso come ognuno che guardi oltre il vetro riceva risposte sempre illuminanti, che emergono dal subconscio e dal vissuto, fondendosi con la realtà. Ed è questo mix insieme visionario e reale che dilata la percezione e conduce chi scrive verso percorsi inattesi che pure trovano agganci – come lasciti memorabili – nelle parole di autori amati e sentiti affini, come si legge dalle significative epigrafi che Abele Longo pone all’inizio di questa sua nuovissima raccolta. Una “scrittura con vista” dunque nel vero senso della parola, che dopo dieci anni dal libro d’esordio (Reversibilità, AdTO 2012), segna il traguardo di massima maturazione tematica e stilistica dell’autore.

Il poeta, come è noto, scrive mentre guarda il divenire fuori e dentro di sé e lo fa, anche inconsciamente, per obbedire alla “compresenza-compassione verso gli altri”, “per salvare ciò che andrebbe perduto e per scavare nella propria interiorità”, e pure “per un raffronto tra il prima e il dopo”, e per soddisfare l’esigenza di “dare ordine alle cose”, come acutamente annota – suoi tutti i virgolettati – Doris Emilia Bragagnini nella sua lucidissima prefazione. Ed è pur vero che la sequenza di testi in cui si evidenzia la tensione dell’autore alla compassione verso gli altri, compresi i trapassati, è dichiarazione di totale adesione a quella prossimità profondamente civile caratteristica della vita e dell’opera di Danilo Dolci, di cui Abele Longo è profondo estimatore e cultore. Una prossimità che nei primi testi brevi e densi come singhiozzi, attraversa le scene realistiche del degrado e della povertà come la morte di un bambino, la maternità che sopravvive a ogni strazio, il povero che fruga negli scarti, l’operaio ucciso dalla pressa. E pure emerge il contrasto ricorrente tra spinta vitale e idea intransigente della morte, come nell’intensa poesia Treno

[…]
Passerà anche questa con l’insolvenza
delle cicale sotto la calura
l’immagine sgualcita di un bambino
esile che prende il treno per il mare
e una chiusa sulla morte che vaga
casellante da una stazione all’altra

Ritorna quel sensibilissimo sguardo del poeta, che ricordiamo nelle pagine di Reversibilità, capace di cogliere per memorabili fotogrammi, che trapassano fino all’osso, una vita che sembra non aver riparo.Tutta la fragilità contemporanea è catturata e messa allo scoperto con un lessico essenziale, scabro, assolutamente non lirico, che predilige toni amari e sommessi, spezzati a tratti da fulminanti squarci dislocanti, come nei versi

santa spossatezza di vivere
… una fila di pianoforti/ a picco sul mare andaluso
…e l’erba sotto i piedi scalzi/ per sentire come prima/ del tempo del bisogno

Il senso di perdita dell’umano, la caduta verticale del senso di solidarietà e pietas attraversano ogni luogo visitato dai versi, sia il Laugharne del Galles, che le città di Otranto e Castro del Salento, la Chacabuco del Cile o il Cortile Cascino di Palermo, luoghi che divengono simboli di tutti i luoghi tormentati del mondo, come bolle di deriva umana, universali.

E pure i versi lasciano filtrare la speranza-luce di un senso di umanità residua che esiste e resiste, come quella degli angeli maldestri, che sembrano di poco conto, ma sono invece da tenere in gran conto, e sono i nostri forse pochi ma solidi amici, con cui cercare un’inversione di rotta, una possibile ricostruzione, un altro abitare.

[…]
La notte dopo il tuo funerale
venisti a trovarmi sotto casa
ti guardavo attraverso la finestra
accendere la sigaretta
curvato nel gesto antico

così come è sempre stato da quando
ci insegnarono a dividere la lavagna
in buoni e cattivi
gli angeli con me hanno vita strana

sono io che li consolo
maldestri mi somigliano nello spirito
sono angeli che in terra contavano poco

Vediamo il poeta sentire poi forte il bisogno di nominare, in segno di affetto e gratitudine, tutti questi veri amici e tutte le figure etiche che hanno lasciato in lui tracce memorabili, con la dedica che appare in ogni testo, sotto il titolo.

E ancora, indelebile nell’immaginario dell’autore di origine salentina, ritorna il Sud bodiniano e contadino nella sua incancellata dimensione di amara penitenza (caremma) e pure nel suo stravolgimento attuale, con le scene di un territorio turistizzato che diviene sempre meno identitario. E si percepisce quella sottile salentudine, che è un inesprimibile sentire, come un duende di postura calda, familiare e accogliente, target umanissimo che Abele Longo, anche inconsciamente, inevitabilmente trascina nella sua scrittura.

[…]
la soggettiva di una foca monaca
la caraffa d’acqua col centrino
accanto la bolla dei santi medici

uno dei due macera d’amore
l’altro sbatte la testa contro il vetro

Qui dove la voce del papa
imita la raucedine di dio
attecchisce l’ansia della caremma

Nella parte finale della raccolta, con squarci pittorici e finissima lettura psicologica, l’autore assegna le ultime pagine ad un gruppo di poesie che ritraggono da varie angolazioni la tormentata vita di Dylan Thomas, con i suoi strambi slanci, errori e sublimi deliri, come un sincero lascito di ammirazioine e gratitudine al grande poeta inglese. E poi, lo stile di Longo. Lungo tutta l’opera colpisce questo suo stile personalissimo consolidato, con una forma che diviene icastica per scelte asintattiche e neologismi (diveltano, sovrarcare,etc.), scelte lessicali e ritmo modulati, capaci di trasmettere amarezza e ironia, cruda realtà e visione etica, risolvendosi ancora una volta nel mistero realizzato della poesia.

gennaio 2023, Annamaria Ferramosca

*

*

AbeleLongo

Abele Longo nato a Depressa (Lecce), è docente dal 1999 presso la Middlesex University di Londra. Si occupa di ecocritica (cinema e poesia), ecopedagogia, traduzione audiovisiva e letteraria. Tra le sue pubblicazioni Danilo Dolci – Environmental Education and Empowerment (Springer, 2020); ‘Roma, viandanza dell’esilio. Rafael Alberti tradotto da Vittorio Bodini’ (in N. di Nunzio e F. Ragni, Morlacchi Editore, 2014); ‘The Cinema of Ciprì and Maresco: Kynicism as a Form of Resistance’ (in W. Hope, Cambridge Scholars Publishing, 2010); ‘Subtitling the Italian South’ (in J. Díaz-Cintas, Multilingual Matters, 2009). Ha inoltre pubblicato, per le Edizioni Accademia di Terra d’Otranto – Neobar, la raccolta Reversibilità (2012), come co-autore Pugliamondo (2010) e con il collettivo Poeti per don Tonino Bello La Versione di Giuseppe (2011) e Un sandalo per Rut (2014). Fa parte dell’antologia, a cura di Giorgio Linguaglossa, Il rumore delle parole Poeti del Sud (Edilet Edizioni Letterarie, 2015).

Anna Rita Merico

30 novembre 2022

Si raccolgono in questo volume i testi scritti da Anna Rita Merico, tra il 2004 e 2021, con l’eccezione della raccolta “Era un raggio… entrò da Est”, pubblicata per Musicaos Editore nell’anno 2020.

«Fenomenologia del silenzio», per unitarietà di dettato e intenti, attraversa un arco poetico di diciassette anni, qui unendo, riveduti e in alcuni casi riscritti, i testi di tre volumi insieme a una ricca sezione di testi inediti. Sulle ragioni che hanno condotto l’autrice a individuare un titolo che racchiudesse il suo percorso poetico di durata ventennale, e che qui si pone all’evidenza dei lettori, ci sarebbe da dire anzitutto che nulla è più necessario, oggi, di un pensiero del silenzio. Allo stesso modo nel frastuono niente risulta più utile di una fenomenologia del silenzio, di una poesia che non cerchi di condurre a una riflessione, ma che sia essa stessa il luogo della riflessione, dell’attenzione, ovvero di una poesia che sperimenta la pagina scritta non come luogo di transito emotivo per le segnalazioni del vissuto, ma come luogo dell’avvenimento, il luogo per l’apparire del fenomeno che accade.

Una delle prime cose che il lettore dovrà tenere presente, nell’accostarsi alla lettura delle poesie di Anna Rita Merico, è il forte legame che c’è nelle pagine dell’autrice tra filosofia, letteratura, scrittura, antropologia, poesia. Non sarebbe possibile cogliere i messaggi di questa ricerca senza tener conto dell’humus di pensiero connaturato a questa scrittura.

[…] Esiste un “Io”, nei versi di Anna Rita Merico, che si potrebbe definire “osservatore”, tessitore dei fili di cultura che uniscono le idee e le attraversano, come fossero continenti. Un “Io” che è una linea costruttrice. Un “Io” che passa con disinvoltura dall’essere personale, coinvolto, a essere impersonale, distante, quasi oggetto tra gli oggetti, fenomeno archetipico. Non c’è spazio però in nessun luogo di questa Fenomenologia del silenzio per un “Ego”. L’ascolto, la concava cavea, l’accogliere silente, sono le dimensioni per attingere  al reale.

[…] La scrittura di Anna RitaMerico celebra così, sotto la scelta di un silenzio “emergente”, il recupero di una parola che, alla nascita nel suono e all’origine del senso, occupa lo stesso grado di esistenza della cosa creata. La parola, dal silenzio, è un emersione ininterrotta dal nulla, è creazione e mutamento, con una componente di cui gli oggetti da soli difettano, la parola infatti comunica universi e mondi umani, lasciandoci segni silenziosi che vanno di pari passo con la materia. Alla lettrice e al lettore spetta il compito di cogliere appieno la sfida e i significati di una scrittura in cui si celebra il connubio tra creazione di nuovi territori del simbolico e pensiero poetante. (Luciano Pagano)

 

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Fenomenologia del silenzio Anna Rita Merico ©Musicaos ed. giugno 2022

Poesie (2004-2021)

da  SEGNATE PIETRE (2004)

Nascenze

Dissero dell’attimo
in
cui
ciò che è perdita
si metamorfosa in pienezza
dissero del tempo
come traccia di ciò che
nella vita
s’inabissa esistendo

dissero di un labirinto
di giardini districati in un segno
dissero degl’incavi
che
stringono nascenze

dissero delle memorie
che
trattengono il dentro di un’opera
riversarono

così

leggerissime parole
su fili e bave
d’acquose ragnatele

*

Ritmo

Il ritmo di dentro
per conoscere il ritmo
del farsi dell’opera

il ritmo di dentro
anima pulsazioni cervello battito
ritmo di silenzio
ritmo di lucori
ritmo d’attorcigliante sguardo

ritmo di dentro
tutto
riversato nell’intimo
d’un capriccioso pensiero

divenuto corpo

*

Leggerezze

Dite di un Nord e di un Sud dell’anima
dite di un dentro e di un fuori dei segni
Tratteggiate una topologia altra
topologia d’accese leggerezze
all’interno di stanze
in cui
difficile è l’accesso
se
non si è riconosciuto
di quanti Nord
e
di quanti Sud
è fatto quest’andare
d’intimi segni

*

da: IN THE PROCESS OF WRITING (2006)

Continua ad inorridire
l’ombra di questa presenza
profumo delicato
forma eterea
continua ad inorridire
la trasparenza di questo petalo
colore tenue
bordo pieghettato
continua ad inorridire
la chiarezza di questa movenza
spessore del tenero
cecità della parola
continua ad inorridire
la forza di questa distruttività
orrendamente vitale

*

Nel dentro di un dove
appena trovato
ai margini di un inizio
Nelle pieghe di un sonno luminoso
che
caldo
concia
la forma della parola
nutrendola
Nelle spire di una chiocciola
questo lento dipanarsi dello scrivere

movimento rettilineo tutto torto
nel corno d’un petalo

movimento rettilineo interamente albergato
nella scia feconda
di un labirinto dissipato

nel centro di un molle grumo
tiro la nascita a me lasciando che
rivoli d’acquatico pensiero
defluiscano dalle dita

*

Entro nell’ascolto
di una materia porosa
lento il vento fresco dell’anima
si addensa in minuscole particelle
che
lasciano traccia
di sé
nel ventre di un’alba di scritture

*

da: DALL’ ANGOLO BUCATO ENTRA LA MEMORIA (2015)

Suoni di terre dimenticate
terre accese dalle infinite luci di cangianti cieli
la luce m’insegue
lungo dismesse interpoderali
la pietra inizia a dire di sé
giallo tufaceo
giallo di malarici incanti
giallo di attesi grani
giallo di bruciati lucori

*

L’ ombra

Chiusi dentro l’ombra
complici le foglie
interpuntavamo le sillabe
ascoltavamo il suono della metrica
limavamo fatica e libertà
instancabili raccoglievamo
il ronzio dell’ape
la calura meridiana
chiusi dentro l’ombra
la parola annottata
dicevamo del lusso
di quel vaso
colmo d’acqua
preziosa purificazione
invisibile esattezza
sul filo lucente di una curva di rugiada

attenti
coglievamo immagini
dagli antichi marmi

versi sgorgavano
ditirambi dicevamo

*

La lucertola

L’alito invase la luce
abitandola
un tremore di verde umido
oltrepassò la corolla
e
il velluto del polline
L’occhio della lucertola s’aprì
scrutando l’eterno
il sasso s’umidì d’umori
narici aperte presero a esplorare l’intorno
L’orecchio dello strisciante
raccolse tutto l’impavido dell’intimo battito della terra
l’alveare si nutrì di voli
per sette volte le scie di lumache attraversarono
i
gialli sulfurei delle corolle nell’erba

L’infinito s’assise sulla punta del ramo in alto
scrutando il dentro di una gemma appena spuntata
una nube di tiepido assoluto colse ogni cosa di sorpresa

innalzandola

*

da: UNA PAROLA SI BEA, AL SOLE, PULSANDO INFINITA (2021)

Sul treno

D’estate
caldo sole
sul treno
sedile di velluto
tailleur nero, chantung in seta
sonno fondo calmo buio
sognò di dormire
raggomitolata
nuda regressione
la notte si svolse, rotaie di ferro
l’alba aggredì, rotaie di ferro
le ore vennero, rotaie di ferro
il viaggio fu lungo
il sonno restò lì ad infilare aghi di tunnel a fili d’oro
era il caldo della nostalgia
oltrepassò i paesaggi che scorrevano
fuori dai finestrini ma senza che li vedesse
e sonno e sonno e sonno

*

Un blues

Era un blues
toccò le corde
colpì le lacrime
Era un blues
usciva dal fumo della serata
tra le mura del locale impastato di luci basse
Era un blues
ci raccontò di un angolo di giornata sfatta
ci raccontò di partenze e mondi nuovi
Era un blues
lo respirammo a mani aperte
come fosse un Pater
tutti muti
inginocchiati nel rosso di una bestemmia
che ci sfregiava l’occhio sinistro
e ci vomitava nelle budella
la nenia della vita

*

Pochi gesti

Pochi gesti ci sono dati
pochi, sempre quelli
fondi
arcani
numinosi
laceranti
torniamo lenti all’Origine
là dove si lacera la palpebra chiusa
consentendo all’occhio di inondarsi
di laviche presenze
di carnose sostanze
di vitali ritmi
di desiderio
Pochi gesti
perché
poi
uno è il gesto che ci serve
un solo gesto:
avvolgere l’ostinazione
quella che ci lega alla Vita
con il Pater e l’Ave
del silenzio

Anna Rita Merico

Anna Rita Merico è nata nel 1958 a Nola (Na), in Via L. Tansillo. Vive, attualmente, in Salento. Lunga attività di ricercatrice (filosofia) di saperi mediterranei lì dove è avvenuto il passaggio dalla lingua orale alla parola scritta, dalle forme di conoscenza scaturite dalla Sapienza al pensiero legiferante/neutro del Logos. Ultime sillogi: Era un raggio…entrò da Est, Ed. Musicaos, 2020 Fenomenologia dl silenzio. Poesie dal 2004 al 2021. Ed. Musicaos 2022 Pubblicazioni su riviste online: Spagine, Juncturae. Saggi critici sul blog della Casa Editrice Musicaos, su Immaginazione. Presente nel sito dell’Osservatorio Poetico Salentino con scritti per poeti salentini e poesia greca contemporanea.

Maria Pina Ciancio

23 novembre 2022

Dopo alcuni anni di silenzio, esce una nuova silloge di Maria Ciancio. La plaquette poetica Tre fili d’attesa è stata stampata nel mese di settembre del 2022, in sessantacinque copie firmate e numerate su carte pregiate ed ecologiche Favini per conto dell’Associazione Culturale LucaniART e contiene in allegato una stampa illustrata su cartoncino dell’artista Stefania Lubatti. All’interno sono presenti i contributi di Anna Maria Curci e Abele Longo.

Nota di lettura di Maria Allo

I Tre fili di attesa, a cui allude il titolo della nuova raccolta di Maria Pina Ciancio, sono le attese e i legami non solamente tra le persone, ma i legami alla terra, a un paese, ai ricordi, alla storia. L’autrice lavora, nelle diverse forme del suo impegno, intorno a due nuclei: realismo e simbolismo. È infatti sempre presente la realtà connessa all’infanzia, alla solitudine, al mito dell’indistinto in fondo alla nostra coscienza, alla terra a cui si riconnettono i riti delle stagioniche permangono nella memoria come indelebile matrice esperienziale, ma la realtà è sempre vista in chiave simbolica, viene trascolorata in immagini metaforiche che connettono i dati del reale a trame più complesse. La ricerca di un’intimità con la natura spinge l’autrice ad addentrarsi nel paese natale, San Severino Lucano, luogo della purezza, che racchiude la verità e non impone delle scelte ma disegna le coordinate del tempo dell’attesa, come dice Anna Maria Curci nella nota introduttiva: “Abbiamo tre fili d’attesa / annodati al calendario del camino /: a bona sciorta / nu’ lavoro ca cunta // u capattiempo ca vene sempre chiù luntanu” (p.8). Ecco la buona sorte, un lavoro che vale, l’autunno che arriva sempre più tardi, nella cultura popolare e nel mondo arcaico e contadino emergono come depositari di un senso dell’esistenza ormai perduto nella condizione alienata della società. Scrivere, come dice Pavese, è spostarsi lungo un percorso continuo tra l’io e il mondo, resta sempre partire dalla realtà, dal dato storico-sociale, personale o collettivo, saranno poi il linguaggio, il ritmo, la qualità fantastica a operare la trasformazione grazie alla quale s’intrecciano altri nessi, analogie, similitudini, metafore. Alle parole scritte è affidato il compito dunque di ricompaginare la solitudine in una comunione: “Talvolta basta uscire per strada/ per riannodare gli orli/ sfilacciati di un pensiero” (p.6). A partire da questo,il cammino dell’autrice diviene sguardo all’invisibile di un Sud mitico “non fanno rumore i paesi d’inverno/ e il giorno e la notte passano zitti” ( p.8) o ”Le parole dette bene in paese/ sono peccati senza riparo/ un gatto randagio/ da scacciare a pedate per strada” (p.9) e cura delle cose e degli altri “ Qui i vecchi hanno la schiena stanca/ appoggiata al muro delle case/ e si raccontano storie condivise/ di veglie e sonni mai saziati”(p.9) con gli stessi occhi con cui ci si sofferma a considerare, pieni di stupore, il divino di boschi, alberi, rane e farfalle , paesi. Infine,questa ricerca di esperienza poetica soggettiva del mito dell’autrice, con mirabile capacità di sintesi, si traduce in un messaggio universale: “Siamo nidi sfilacciati sugli alberi d’inverno/ le guance rosse e gli occhi aperti al cielo” e la raccolta si configura come un’esplicita dichiarazione di poetica, dove Maria Pina Ciancio enuncia le connotazioni della parola della poesia: ”Ho un cielo d’inverno da inseguire/ risvegli e riverberi di resine/ memorie di partenze e di ritorni/ benigne solitudini. La chiusura travalica il fenomeno dell’atemporalità dell’atto poetico con un forte e preciso messaggio: ”Sulla via che ci incontra/ il vento sale e a te mi del riconduce” (p.11), ovvero la parola poetica continua a manifestarsi alla ricerca delle sue radici e al tentativo di rompere il cerchio della solitudine attraverso Tre fili d’attesa. Dietro la veste realistica, la ricerca di un linguaggio attento e calibratissimo, contraddistinto dal dialetto del paese natale dell’autrice, conferisce all’opera una voce inconfondibile, là dove “Timpa del Diavolo è meridiana senza tempo”, come dice Anna Maria Curci ed è chiaro dunque quanto la ricerca di un linguaggio, di uno stile sia funzionale al valore morale della comunicazione letteraria. (Maria Allo)
_____________________________________________________________

—–

*

“TRE FILI D’ATTESA” Maria Pina Ciancio, LucaniArt 2022

Con una stampa di Stefania Lubatti

Interventi di Anna Maria Curci e Abele Longo

Prefazione di Anna Maria Curci

Il tempo dell’attesa varia la percezione della sua durata muovendo fili che non sono immediatamente riconoscibili, dal momento che l’estensione di questi fa capo a mutevoli combinazioni di fattori.

Tre fili d’attesa di Maria Pina Ciancio ha consapevolezza di questa dinamica complessità e la accompagna a una collocazione nello spazio che rende tale particolare epifania dell’attendere vibrante di segni visivi e sonori.

Gli intervalli tra partenze e ritorni possono dilatarsi e condensarsi improvvisamente, ma ciò che conferisce a Tre fili d’attesa una voce inconfondibile è il loro incontrarsi nella lingua-madreterra del Pollino, là dove «Timpa del Diavolo è meridiana senza tempo».

Abbiamo tre fili d’attesa
annodati al calendario del camino
a bona sciorta
nu’ lavoro ca cunta
u capattiempo ca vene sempre chiù luntano

La buona sorte, un lavoro che vale, l’autunno che arriva sempre più tardi, dunque, espressi in tre versi nel dialetto del paese natale di Maria Pina Ciancio, San Severino Lucano, disegnano le coordinate del tempo dell’attesa tra destino, fatica e alternarsi delle stagioni.

All’interno di queste coordinate, il balzo del cuore pensante si volge avanti e indietro. Quando il movimento è in avanti, esso è caratterizzato da un ricorso al tempo presente che esprime considerazioni di portata universale («siamo nidi sfilacciati sugli alberi d’inverno»), talvolta collegate a una forma del gerundivo che è invito operoso e, insieme, un canto allitterante ai tesori serbati dall’attesa: « Ho un cielo d’inverno da inseguire/ risvegli e riverberi di resine». Là dove il movimento è a ritroso, esso si volge al ricordo e alla rievocazione di vicende singolari ed esemplari, con l’uso ricorrente del passato remoto alternato all’imperfetto: «Sgravò a settembre nel letto/ dell’imbottita rossa/ dove zia Marietta alla buon’ora/ lievitava la pizzicata del pane nero/ Tre giorni covò la febbre/ al settimo Giacomino trapassò/ e anche il livato/ da sotto alla coperta/ in fretta rinsecchì».

Il ricorso all’espressione dialettale non è mai ornamento folkloristico, ma è strettamente collegato alla precisione del dire, tensione risolta efficacemente in un dettato poetico nitido, limpido, e alla nozione circa la necessità, quasi all’obbligatorietà della scelta linguistica, giacché il termine «livato», nel contesto appena menzionato, abbraccia ambiti di significato e richiama sonoramente memorie ben più di quanto possa farlo il corrispondente in italiano, “lievito”.

Le vicende di emigrazione e di aspettative, i «rivoli di storie», le «schermaglie di bambini», la «guerra d’inverno», le «notti difficili da dormire» sono intrecciate, storie condivise e restituite da una voce poetica che sa far tesoro di quel «tempo irreale» che ha il qui del paese tra partenze e ritorni,  a «benigne solitudini» lungo un sentiero che sale, che si inerpica per incontrare.

Anna Maria Curci

*

maria pina ciancio tre fili d'attesa

Talvolta basta uscire per strada
per riannodare gli orli
sfilacciati di un pensiero

Dopo la guerra dell’inverno
c’è chi parte e c’è chi resta
(…)
Gennaro e Vincenzino
sillabano il tempo
in anelli di fumo irregolare
e aspettano i ritorni
tra la ringhiera scorticata
e i gerani smarriti al grande cielo

*

Ci sono notti difficili da dormire qui
per quel piccolo cane a tre zampe del vicino
che abbaia in cima alle scale
e rivendica ai passanti
l’equilibrio sbilanciato e senza nome
della strada

*

Sgravò a settembre nel letto
dall’imbottita rossa
dove zia Marietta alla buon’ora
lievitava la pizzicata del pane nero
Tre giorni covò la febbre
al settimo Giacomino trapassò
e anche il livato
da sotto alla coperta
in fretta rinsecchì

*

C’è un tempo irreale qui
che comincia con la neve
e finisce a quaremma
con la strada che si asciuga
e i cani impazziti che rincorrono
il pallone di Antonella

*

La vita così breve adesso
Il vento s’alza
e cerca l’uomo fermo sul muretto
quello che ingoiava stelle
in mezzo ai boschi
per suo figlio nato muto
con un cardo già appassito
in mezzo al petto

(poesie 2006-2007)

mariapina ciancio

Maria Pina Ciancio di origine lucana è nata in Svizzera nel 1965 e dopo aver vissuto in Basilicata, si è trasferita da circa tre anni nella zona dei Castelli Romani. Viaggia fin da quand’era giovanissima alla scoperta dei luoghi interiori e dell’appartenenza, quelli solitamente trascurati dai grandi flussi turistici di massa, in un percorso di riappropriazione della propria identità e delle proprie radici. Ha pubblicato testi che spaziano dalla poesia, alla narrativa, alla saggistica. Tra i suoi lavori più recenti ricordiamo “Il gatto e la falena” (premio Parola di Donna, 2007), “La ragazza con la valigia” (Ed. LietoColle, 2008), “Storie minime e una poesia per Rocco Scotellaro” (Fara Editore 2009), “Assolo per mia madre” (Edizioni L’Arca Felice, 2014), “Tre fili d’attesa” (LucaniArt 2022). Ha ricevuto numerosi premi ed è inserita in antologie e riviste di settore. Dal 2007 è presidente dell’Associazione Culturale LucaniaArt.

Maurizio Evangelista

10 ottobre 2022

Mr Me

Mr. me” di Maurizio Evangelista (Arcipelago Itaca 2022)

“Nelle stanze d’albergo di Maurizio Evangelista vanno in scena i plurimi e postumi teatranti di una vi-cenda umana che ha il sapore un po’ dei vecchi film in bianco e nero, un po’ dei trasalimenti di un’infanzia che riaffiora dolente (“ed è questo che mi porto dell’infanzia / una libertà che non mi sarà mai perdonata”). Il misterioso “Mister me”, volutamente e ironicamente minuscolo, è uomo e donna, è padre e madre, è amato e amante, è vergine e madonna, prostituta e premaman, in un rodeo che si muove nelle multiple prospettive di una telecamera, di un indiscreto occhio fratello.[…]

[…] Il tutto in uno stile che sa conciliare il lirismo sottile con la sfron-tatezza e la leggerezza di una parola comune, apparentemente non connotata. Eppure il parossismo, il gioco di rimandi, le strut-ture chiastiche, i calembour, accendono le storie di Evangelista e i suoi versi, li rendono taglienti e affilati come sempre la buona poesia osa e ha il dovere di fare.”

Alessio Alessandrini  (dalla Motivazione della 7^ edizione del Premio nazionale editoriale di poesia “Arcipelago itaca” – Raccolta inedita di versi – Non opera prima)

*

3. STANZA 103

l’uomo con la giacca scura dorme per finta.

alla sinistra la sua unica figlia
abbraccia lacrime e vestito
come il giorno in cui la diede sposa.

il sole resta sulle persiane a notte
non è ponente né mattino.

distante la moglie ha i capelli malinconici
e il sorriso di un tempo inguaribile.

li ha tutti davanti a sé
con quel tipo di occhi che non si chiudono mai.

*

6. STANZA 109

ogni piano ha cinque piani
una fermata spalla a spalla
(conservazione gomito voce)
io spezzetto mi allargo al centro
sono spiaccicato
occhio per occhio a pugni
tiro a segno svelto aggressivo disumano
presto scendo è sola folla follia FOLLOSITÀ.
si affannano fanno
dicono, attenti narici coprite.
sento chi fiuta
tutti bla bla i loro blaaaaaaaaaaaaa bla
a perdifiato calci.
punite la bocca scoperta
fatelo a pezzi, che non respiri che non odori
che non emetta suoni che non salga su più su
che non schiacci nessun tasto
che non parli taccia muoia
che gridi su giù su laggiù
DISTANZA
minimo 2 metri
minimo senza scampo.

*

13. STANZA 127

marito e moglie
mi chiedono com’è il tempo là fuori

lui con una manica corta e una maglia
annodata alla vita

lei con un cappello immenso
che attribuisco al sole

non ci fa caso alle sue grosse tette.

sto in piedi di fronte a loro
e penso che un po’ dipende da come ci si veste.

loro si guardano e non dicono niente
ma dal mio sorriso si convincono
che ci sarà il sole (probabilmente)

e li vedo tutti e due seduti all’ingresso
a guardare là fuori

ognuno il tempo che vuole.

*

33. STANZA 311

non si chiedeva mai
di albeggiare in viso col sapone
si restava fermi dopo il fischio.
poi Luigi saltava a due i gradini
e l’estate cominciava in pieno inverno

con noi due che contavamo le fermate
cercando gli occhi di chi inciampava.

*

49. STANZA 421

puoi scorgere i cadaveri di due
con una fossa scura in mezzo al petto

è possibile sia il furto dell’inverno
una ferita di vestito sulla giovinezza

se questa eredità tenuta stretta
vale un pensiero così semplice
che non rivela nulla.

cancella i cani per strada
cancella i mattoni dalle case
cancella le città dalle città.

cancella l’esistenza di tutte le vite visitate.

e puoi vedere in pixel
il momento in cui uno sussurra all’altro
qualcosa d’incomprensibile al telefono
e il corpo rabbrividisce

soffocato nell’accenno di un #abbraccio.

*

Maurizio Evangelista è nato a Terlizzi nel 1980, vive a Bisceglie. Dopo la laurea in Scienze Politiche ha pubblicato le raccolte poetiche Suonatore di corno (La Vallisa, 2010) e La città inventata (Secop edizioni, 2015) con il quale ha ricevuto il premio della critica “Vrdnicke Venac Vile” a Sremski Karlovci in Serbia. Organizzatore e direttore artistico dal 2010, con Teodora Mastrototaro, dell’evento Notte di Poesia al Dolmen, Evangelista ha pubblicato in diverse antologie in Italia e all’estero, tradotto in inglese, russo, po-lacco, serbo-croato, spagnolo e albanese. Nel 2017 ha partecipato alla XVII edizione della Giornata Mondiale della Poesia di Varsavia su invito del poeta Aleksander Navorski, ed è stato tra gli ospiti della XI edizione del “Trireme della Poesia Ionica” a Saranda, in Albania, su invito del poeta Agim Mato. Oltre alla poesia ha pubblicato suoi racconti per l’infanzia nei libri Gli animali e noi (Ed. Adda – Scritture Meridiane Per Ragazzi, 2013), So dire di no (Ed. Adda – Scritture Meridiane Per Ragazzi, 2015) e La rosa di Damasco (Ed. Adda – Scritture Meridiane Per Ragazzi, 2016) a cura del prof. Daniele Giancane.

Giuseppe Castrillo

26 aprile 2022

giuseppe-castrillo

Limoneti

Ridono al sole i limoneti
nell’ardua canicola con quel
tanto d’allegria che basta.

Quei che ancora mi penso
abitano a ridosso delle case, su
fazzoletti di terra innocente.
D’inverno coprono di foglie
imperiture le fessure dei tufi
slabbrati come calze stile
anni sessanta, e incupiscono
d’invidia il melo e il fico,
la vite, il ciliegio e il pero.

I miei pomari danno gialli
limoni che stampano su per le
pareti alle Palazzine*, ragnatele
di luce, gomitoli di frutti  che
penso all’uovo pieno di mistero
a fiaccole accese nelle tessere
tra  case e  dirupi, fragile
gioia nel seno del piccolo paese
che visse le garrule voci che
ancora ascolto  di vicinati
che più non sono e che amai.

*Quartiere del paese dell’autore

*

Le canzoni

Non sono uno che è vissuto
di canzoni. Da intellettuale,
parola in disuso, all’era di
internette*, cito qualche titolo

che quasi più nessuno ascolta
e io neppure. È che le lego poco
alla mia vita. Son albe silenziose
nel cielo maledetto, crete rapprese

nel  bosco, ustinate** a dirmi piano:
Ricordi? Una sera a cinema quasi
litigammo per Around Midnight.

E mi sono vergognato che il tema
di Lara e del Padrino mi piacesse
cantato da Dorelli. Fesso. Nevvero?

*inernet (voce dialettale)

**ostinate (voce dialettale)

*

Contro i  poeti

Io non sono più
quel che fui.
Ho perso di quel tempo
la secchezza
delle parole che non mentono,
l’arida scrittura
di chi ha poco da dire
ma sa che dire.

Ora che mi fingo poeta
guardo il mondo
dalle feritoie di un giorno
che muore
e lascia spazio al dì
che nasce,
registro il suono
della cetra sfiorata dal vento
e cerco le parole nel rimario.

E poi mi chiedo
ma che cosa cantano
i poeti
andalusi e non?
Sono vivi,
come dicono tanti,
e attenti, svegli
all’attimo che passa,
e che par, agli occhi lor,
esser sublime?

O si ubriacano
nei giochini
che perlustrano
strade che non esistono?
E continuano
a naufragare
in questo o in quel
mare e forse
non sanno ch’oggi altri
sono i naufragi.

*

La dea Era

È nell’aria l’eco dei tuoi
ritorni. È il cielo dei nostri
incontri e della vita che ci
tese agguati e sviluppi
e più non ci abbandona.

Si inonda di cielo il pezzo
di strada  che cammini fugace
come un attimo di gioia che ci
afferrò mentre gli altri vanivano
ombre solitarie, scorie di naufragi.

Lo spazio di cielo che godo
ancora, sono i tuoi occhi
a farmelo toccare, mentre
quasi citando mi guardi e dici:
a chi la storia, a chi la memoria.

Nel cielo aperto come libro,
sfilano leggere le sillabe
più semplici che il tempo
ancor non ha contorto, e chiara
sulle case antiche la sera avanza.

*

Saffo

Certi guardano in volo
gli aquiloni per fingere
di  volare  e poi smarrirsi.

Certi negli occhi salmastri
vedono frangersi le onde
sugli scogli d’ agave irti.

Certi desiderano un pensiero
alto che sorvoli le umane
pene dei giorni sempre uguali.

A me bastano i tuoi seni
color sabbia, i capezzoli
che ricordano il dolce carrubo.

Mi basta tenderti le mani,
la braccia che si incontrano
perché scompaia la croce della vita.

*

Mimnermo

Ci sono dei giorni
che va tutto bene
il sesso batte forte ed entra
che nemmeno il vento  e pare
una falsa morte che con gli occhi
vagola al vetro delle imposte.

Va così bene che non
ti accorgi d’essere vecchio
e non ci fai caso se di mano
ti cadono gli oggetti, o i nomi
dimentichi e ti’incazzi con l’iphone.

Hai provato a chiederle
in un impeto di coraggio
brutale: “Mi vuoi bene?”
“Certo. E tu?”  Non sapevo
che dire. “Non lo so “. Non è
che non lo sappia: mi pare
troppo bello che lei mi ami
ancora, e mi cerchi. Penso.

L’alba ai vetri del paese
antico porta un gesto che
rischiara le chiome apparecchiate
dei lecci dopo il sonno della notte,
e la torre già respira il sole che arriva.

Rifare l’amore con te
quando le vecchie imposte
sbattono e dicono: “c’è tempo
ancora per vivere, per amare.

*

L’inesprimibile nulla

Lega a un ricordo
la polvere posata
sui fogli delle cose.

Né aliti né ventate
scuotono il nulla
infantile scia di giochi lontani.

Nel nulla è dolce consistere di gioia.

*

Fiori

Fiori di carta
ho visto impressi
sui vetri di una scuola
di campagna, di città
-non saprei ricordare-
insieme ai petali diacci
sulle dune a metà febbraio.
Li ho scambiati
per un tenue palpito,
per un bacio silenzioso
quando sulla spiaggia
l’onda ritorna e l’altra
ancora non arriva.

*

Il veglio

Al vento delle cose che passano
parla il custode della casa.

Le parole le ascolta il tempo,
le sommerge incommensurabile
ll naufragio dell’istante.

Le case dicono il dolore
dell’assenza che si fa cupa
come pietra nel greto
dove si son persi i fondi.

*

La perfezione dell’uovo

Fummo uovo
ora siamo donne e uomini,
eventi e misteri.
Venimmo dalla perfezione,
ci bastò un piccolo mare
di acque
per vivere e respirare.
La perfezione dell’uovo
fece tutto al posto nostro.

Loro sono ventre
e forno
cibo, acqua e aria,
sapienza e amore.
Le madri
sono la perfezione dell’uovo.
Sono donne:
soffrono e piangono,
muoiono e sopravvivono.
Sono storie:
le nostre solitarie e collettive.
Sono il dolore
che accompagna la vita,
la luce che ristora,
il raggio di sole tra lacrime trasparenti.
Sono donne
sono madri:
il ramo rubato
alla primavera in fiore.

Sono la perfezione dell’uovo.

La silloge fa parte di una raccolta di liriche inedite di prossima pubblicazione

*

Giuseppe Castrillo: laureatosi a Napoli  in Lettere Moderne presso la Federico II, Giuseppe Castrillo ha insegnato nei Licei e negli Istituti Tecnici, ha svolto il ruolo di Dirigente scolastico.  Ha partecipato ad un progetto del CNR volto ad esplorare la diffusione del teatro erudito nel Meridione d’Italia tra Cinquecento e Seicento. Si è interessato di Letteratura in chiave comparatistica. Ha scritto saggi critici sul teatro minore di tardo Rinascimento nel Meridione d’Italia, sulla cultura tra Settecento e Ottocento, sulla metafora in Vincenzo Monti, sulla fase storica post-unitaria nell’Alto Casertano, sulla poesia di Sereni e Fortini, sulla pedagogia di Gianni Rodari. Ha pubblicato recensioni su riviste specialistiche; ha partecipato alla presentazione di opere di narrativa, di saggistica ecc. È intervenuto, con alcuni contributi sulla scuola, al Festival del Diritto di Piacenza (2010 e 2011).  Sta raccogliendo i suoi studi di letteratura e i suoi interventi a vari convegni, in un volume collettaneo. Ha pubblicato per le Edizioni del Festival dell’Erranza il racconto Stella del mattino (2020); per Aletti Editore il libro di poesie Recisioni e suture. Taccuino del trito sentire (2021); per Europa Edizioni  la raccolta di racconti L’ora tinta. Piccolo prontuario di medicina familiare (2021).

Stefano Vitale

18 febbraio 2022

Si resta sempre altrove - Stefano Vitale

Stefano Vitale «tra il Tutto e il Niente»

Ritornare all’inizio della vita, con l’ultimo paragrafo del libro: la figura del padre. Il Piccolo requiem gli dice addio, fermando in istantanee toccanti le ultime battute della sua esistenza, faticose, tormentate, in un corpo consunto e ormai in procinto di venire meno. Sono pagine amare e coinvolgenti che però non scaturiscono unicamente dalla drammatica, fatale occasione, ma da un più profondo osservare l’esistenza in tutta la sua complessa dialettica fra esistere e scomparire, essere qui e contemporaneamente già un po’ «altrove». Tornando, infatti, all’inizio della raccolta leggiamo:

Segar via i rami secchi
d’una benjamina morente
è gesto necessario
un dolore innocente
sul finire del giorno.

Ma dall’estrema ferita
scorre un lattice scuro
che trattiene la mano
col suo morso colloso
la corteccia si sfalda:

è la vita che urla.

E ancora prima (al secondo movimento di Luce rubata):

Nasce la parola
nel dialogo coi morti
interrogare ostinato
di chi è vicino assente
e tocca al coraggio della paura
graffiare la tavola bianca

con parole pazienti
ragno in bilico sul filo d’una vena.

La vita splende, per poi urlare nel momento della fine (un urlo metaforico, che può esprimersi anche nelle forme ridotte, costrette alla sordina, di un’esistenza allo stremo), e la parola che paziente la ricostruisce nello strenuo esercizio della poesia.

La Natura non sta ferma

sempre muta si trasforma
ombra che si disfa in altra ombra,
luce che s’innerva in nuova luce.

Nella perpetua mobilità della Natura passa anche quel minuscolo, individuale agglomerato di cellule e sogni che è l’io, destinato a sorprendersi del proprio stesso esistere quando i suoi sensi lo rivelano alla coscienza, per un occasionale riflesso (cfr. anche Mi guardo nello specchio, e Trapasso, VIII.):

Miracolo della vita

è la percezione di sé
di colpo riflesso
nella vetrina d’un bar la mattina
perché ti sei visto e sentito
a te stesso sorpreso
nell’istante presente ora svanito
oltre il flusso arrogante del tempo
anche se, lo sai bene,
non servirà a niente.

Incerto è il nostro futuro, come del resto non pienamente sotto controllo rimane già fin d’ora quella che è «la misura di noi». E tuttavia io sono qui a comporre versi, e dunque esisto, e basta poco per rimanere una volta di più incantati dal meraviglioso spettacolo di ciò che accanto e insieme a me si staglia nella sua presenza, e per essere anche solo «rapiti dal canto/ di porte sbattute dal vento».

Intervengono così le quattro suggestive Variazioni di luce per voce sola, di cui la prima dice:

Luce dimenticata accesa
luce sprecata direbbe qualcuno
lume-lama che segna
lo sforzo del nostro apparire.

[…] dalla prefazione di Alessandro Fo

Il tempo di una rosa
quello di una vita

improvviso fiorire
lento disfarsi

nel profumo dell’erba
ricamato di luce

nell’istante del disastro
di petali precipitati

cercare la salvezza
nel taglio estremo

c’è il calore del corpo
dimora in cammino

verso l’altro capo delle cose.

Phanes

Hai mai pensato
al balbettìo arioso e nervoso
del tempo prima del mondo?

Dove si nasconde la sorpresa
di una danza sgangherata
nostalgia del sonno
da cui tutti noi veniamo ?

Battito d’ali e lingue
di serpenti accarezzano
il guscio dell’uovo d’argento
della vita-suono che s’invola

scivolando nell’ingorgo
del silenzio-luce
così come si andasse ad una festa
senza essere invitati.

Compensazione

Bello pensare che siamo di più
di quel che perdiamo,
di più di quel che per caso incontriamo.

Il silenzio talvolta protegge
altre volte la gioia ci sfugge
inseguendo ombre di nebbia

Nell’oscillare d fragili fili
sta il riposo che ancòra cerchiamo
riparo d’errore, ritaglio di luce.

Così si riparte da zero
più  allegri e distratti e non importa
se l’ultimo tram è appena passato.

Ricordi palermitani

I.

Un tempo eravamo marrani
scaltri mercanti ignoti marinari.
Nessuno conosce meglio di noi
l’arte di vendere quel niente che siamo
come fosse la nuda bellezza
d’un mondo che intanto cade in rovina.

II.

Ho portato a spasso
il tuo sorriso in carrozza
dalla Stazione all’Acquasanta
la valigia odorava di treno e di mare
nel traballante scalpiccìo
degli zoccoli sul pavé
il vento ci lavava la faccia
dalla fatica del viaggio.

III.

Con mia madre
in punta di piedi la mattina
verso Monreale
su per corso Calatafimi
e San Martino delle Scale
sotto il cielo ancòra grigio
saliva il filobus
sussurrando alla strada
parole gommate
morbide scariche elettriche
di sorrisi non ancora smarriti.

A mia madre Maria Grazia

Dalla “Postfazione” di Alfredo Rienzi

L’ALTROVE DELLA PAROLA

In quest’ultima tappa del suo percorso poetico, Stefano Vitale prosegue l’insistita esplorazione del mondo e del proprio esserci, del divenire in esso e del nominarlo.
Il titolo, schietto e icastico al tempo stesso, confessa come l’azione di avvicinamento all’antinomico qui, l’assedio al centro, il pienamente dimorarsi in esso, restino ancora una volta, «sempre», vani o quantomeno provvisori e parziali. Per quanto inseguita, indagata, a volte subita, la strada verso la città perfetta non si lascia possedere fino in fondo, si oppone, così che un «altrove» (o una miriade di altrove) resti meta sconsolata e confine, ma per il poeta – che questa ricerca sa essere il suo compito – anche nuovo punto di partenza….

                           

                          

Stefano Vitale (1958), nato a Palermo, vive e lavora a Torino.

Nel 2003 ha pubblicato (con Bertrand Chavaroche e Andy Kraft) la plaquette Double Face (Ed. Palais d’Hiver, Gradingnan, Francia), nel 2005 Viaggio in Sicilia (Libro Italiano, Ragusa) e Semplici Esseri (Manni Editore, Lecce). Per le Edizioni Joker ha pubblicato Le stagioni dell’istante (Prefazione di Mauro Ferrari, 2005) e La traversata della notte (Prefazione di Giorgio Luzzi , 2007). Quindi Il retro delle cose nel 2012 con Puntoacapo Edizioni (Prefazione di Gabriella Sica) e nel 2013 per PaolaGribaudoEditore la raccolta di poesie “Angeli” con illustrazioni di Albertina Bollati. Nel 2015 ha curato (con Maria Antonietta Maccioccu) la raccolta di poesie Mal’amore no edito da SeNonOraQuando. Nel 2016 ha partecipato alla mostra del pittore Ezio Gribaudo La figura a nudo con una plaquette di 24 poesie pubblicate in mostra e nel catalogo. Nel 2017 ha pubblicato presso l’editore La Vita Felice la raccolta La saggezza degli ubriachi e nel 2019 Incerto confine (con illustrazioni di Albertina Bollati e prefazione di Vittorio Bo) per PaolaGribaudo Editore, Torino. Nel 2021 ha pubblicato Il colore dei gatti per Ventura Edizioni, 12 filastrocche per bambini, con illustrazioni di Albertina Bollati.
Le sue poesie ed i suoi libri hanno ricevuto riconoscimenti in numerosi premi, ed è presente in molte riviste, blog e antologie. Sue poesie tratte da La saggezza degli ubriachi e da Incerto confine sono tradotte in inglese sul Journal of Italian Translation (2019 e 2020) e sul sito Italian Poetry (2018). E’ presente in Ossigeno Nascente. Atlante dei poeti contemporanei sul portale di letteratura griseldaonline dell’Università di Bologna oltre che sul sito internazionale Italian Poetry diretto da Paolo Ruffilli.
Direttore Artistico dell’Associazione Amici dell’Orchestra Sinfonica della Rai., giornalista pubblicista, scrive su www.ilgiornalaccio.net occupandosi delle rubriche critiche dei libri di saggistica e letteratura, curando la rubrica “Oggetti smarriti” dedicata alla poesia.

Isacco Turina

1 febbraio 2022

Isacco Turina

Isacco Turina: testi tratti dal libro Non come luceTerra d’ulivi 2021 
collana “Deserti luoghi” diretta da Giovanni Ibello

NON COME LUCE ISACCO TURINA

 

*

dalla sezione TRE D’AMORE

Dimmi il fiore che porti nello stomaco
che porti nella mente.
Fiore scuro di paura
fiore giallo dello sforzo
fiore bianco dell’attesa.
Dimmi l’insetto che ti ronza intorno
la cicala che stride nell’orecchio
la sapienza del ragno che ti abita.
La forma che tu vedi è una follia:
sotto la giusta ombra intimamente
si muovono i giardini inconsapevoli.

*

dalla sezione INTERLUDIO

Da una bocca qualunque ascolteremo
la frase che ci annienta per bellezza
o crudeltà e porteremo sempre
in noi come una vecchia sentenza
che rilascia nel tempo la condanna.
Cibarsi d’ombre fino a quando
sia luce tutto intorno
è ancora il congedo più bello.

*

dalla sezione NEL PRESENTE

2. Grigio oltremare

La incontro sui mercati fra il deserto e l’oceano.
Porta un turbante che non sa allacciare.
«Mi chiamano la Rondine. Ogni inverno
ritorno in questo posto. Cerco uomini
giovani, la carne locale.
Non devi giudicare: la distanza
ci fa liberi. A casa coltiviamo
inibizioni. Qui rovino e ricreo
la vuota parola amore.
……………………………………
Hai la pelle di un frutto adolescente.
Mi piace questa quiete dopo il coito:
ogni mia belva è chiusa nella gabbia,
china il capo e mi chiede una carezza.
La prima volta che sono arrivata
credevo di tornare agli elementi,
la sabbia, la notte, il vento:
il deserto, lo scheletro del mondo».
«Il ritorno è sempre monotono,
si finisce a parlare con le nuvole».
Un autista è la polpa tenera
nel guscio duro di un veicolo.
«A trent’anni mi sentivo finito.
Sono rinato nel grembo di un camion
dove mio padre è precipitato
fra le pecore e l’autostrada.
Genitori che morite,
radici spinte a forza nella terra.
Gli accarezzavo la barba ed erano
superfici scabrose di pianeti a venire».
Il camion si muove come un bruco nella polvere.
Viviamo fra parentesi e crediamo
di conoscere l’intero libro.
Guarda: il deserto sta fiorendo
di bottiglie di plastica immortali.
Cimiteri di copertoni
che portavano il peso degli uomini
attendono che nasca
un profeta dalle loro trincee.
I figli accorrono al passaggio del motore.
Un bambino è un sogno.
Mille bambini sono un incubo.
Ma un miliardo di bambini – è realtà.
Mi risveglio da un sonno bianco.

Serpente Umanità, le tue vertebre
tendono all’infinito, il tuo fiato
copre il cielo, il tuo nome
è poltiglia di tutti i nomi.
Come un rettile chiuso nel terrario
non è mai vero giorno per te,
non è mai vera la notte.
Animale senza compagno
malinconico e sterile
digerisci e vomiti
vomiti e digerisci e non distingui
nelle viscere tiepide il piacere
e il disgusto. Ogni sfondo
ha preso il tuo colore, Umanità
vecchia madre demente,
ultima nemica dell’uomo.
«Siamo arrivati, ma l’imbarco è lungo».
Ho visto troppo e non abbastanza.
Sull’altra sponda si distende
custodito da flotte militari
il suo corpo di arene e di colline,
i giardini sconvolti
da tempeste improvvise.

Stretta nella camicia
delle frontiere si dibatte, folle
e ancora prigioniera
Europa

***

Isacco Turina è nato a Villafranca di Verona nel 1976. Vive a Firenze. Ha pubblicato il volume di poesie “I destini minori” (Il ponte del sale, 2017) e la raccolta di racconti “Elogiodelle merci” (Coazinzola press, 2018).

 

 

*