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Stefano Vitale

18 febbraio 2022

Si resta sempre altrove - Stefano Vitale

Stefano Vitale «tra il Tutto e il Niente»

Ritornare all’inizio della vita, con l’ultimo paragrafo del libro: la figura del padre. Il Piccolo requiem gli dice addio, fermando in istantanee toccanti le ultime battute della sua esistenza, faticose, tormentate, in un corpo consunto e ormai in procinto di venire meno. Sono pagine amare e coinvolgenti che però non scaturiscono unicamente dalla drammatica, fatale occasione, ma da un più profondo osservare l’esistenza in tutta la sua complessa dialettica fra esistere e scomparire, essere qui e contemporaneamente già un po’ «altrove». Tornando, infatti, all’inizio della raccolta leggiamo:

Segar via i rami secchi
d’una benjamina morente
è gesto necessario
un dolore innocente
sul finire del giorno.

Ma dall’estrema ferita
scorre un lattice scuro
che trattiene la mano
col suo morso colloso
la corteccia si sfalda:

è la vita che urla.

E ancora prima (al secondo movimento di Luce rubata):

Nasce la parola
nel dialogo coi morti
interrogare ostinato
di chi è vicino assente
e tocca al coraggio della paura
graffiare la tavola bianca

con parole pazienti
ragno in bilico sul filo d’una vena.

La vita splende, per poi urlare nel momento della fine (un urlo metaforico, che può esprimersi anche nelle forme ridotte, costrette alla sordina, di un’esistenza allo stremo), e la parola che paziente la ricostruisce nello strenuo esercizio della poesia.

La Natura non sta ferma

sempre muta si trasforma
ombra che si disfa in altra ombra,
luce che s’innerva in nuova luce.

Nella perpetua mobilità della Natura passa anche quel minuscolo, individuale agglomerato di cellule e sogni che è l’io, destinato a sorprendersi del proprio stesso esistere quando i suoi sensi lo rivelano alla coscienza, per un occasionale riflesso (cfr. anche Mi guardo nello specchio, e Trapasso, VIII.):

Miracolo della vita

è la percezione di sé
di colpo riflesso
nella vetrina d’un bar la mattina
perché ti sei visto e sentito
a te stesso sorpreso
nell’istante presente ora svanito
oltre il flusso arrogante del tempo
anche se, lo sai bene,
non servirà a niente.

Incerto è il nostro futuro, come del resto non pienamente sotto controllo rimane già fin d’ora quella che è «la misura di noi». E tuttavia io sono qui a comporre versi, e dunque esisto, e basta poco per rimanere una volta di più incantati dal meraviglioso spettacolo di ciò che accanto e insieme a me si staglia nella sua presenza, e per essere anche solo «rapiti dal canto/ di porte sbattute dal vento».

Intervengono così le quattro suggestive Variazioni di luce per voce sola, di cui la prima dice:

Luce dimenticata accesa
luce sprecata direbbe qualcuno
lume-lama che segna
lo sforzo del nostro apparire.

[…] dalla prefazione di Alessandro Fo

Il tempo di una rosa
quello di una vita

improvviso fiorire
lento disfarsi

nel profumo dell’erba
ricamato di luce

nell’istante del disastro
di petali precipitati

cercare la salvezza
nel taglio estremo

c’è il calore del corpo
dimora in cammino

verso l’altro capo delle cose.

Phanes

Hai mai pensato
al balbettìo arioso e nervoso
del tempo prima del mondo?

Dove si nasconde la sorpresa
di una danza sgangherata
nostalgia del sonno
da cui tutti noi veniamo ?

Battito d’ali e lingue
di serpenti accarezzano
il guscio dell’uovo d’argento
della vita-suono che s’invola

scivolando nell’ingorgo
del silenzio-luce
così come si andasse ad una festa
senza essere invitati.

Compensazione

Bello pensare che siamo di più
di quel che perdiamo,
di più di quel che per caso incontriamo.

Il silenzio talvolta protegge
altre volte la gioia ci sfugge
inseguendo ombre di nebbia

Nell’oscillare d fragili fili
sta il riposo che ancòra cerchiamo
riparo d’errore, ritaglio di luce.

Così si riparte da zero
più  allegri e distratti e non importa
se l’ultimo tram è appena passato.

Ricordi palermitani

I.

Un tempo eravamo marrani
scaltri mercanti ignoti marinari.
Nessuno conosce meglio di noi
l’arte di vendere quel niente che siamo
come fosse la nuda bellezza
d’un mondo che intanto cade in rovina.

II.

Ho portato a spasso
il tuo sorriso in carrozza
dalla Stazione all’Acquasanta
la valigia odorava di treno e di mare
nel traballante scalpiccìo
degli zoccoli sul pavé
il vento ci lavava la faccia
dalla fatica del viaggio.

III.

Con mia madre
in punta di piedi la mattina
verso Monreale
su per corso Calatafimi
e San Martino delle Scale
sotto il cielo ancòra grigio
saliva il filobus
sussurrando alla strada
parole gommate
morbide scariche elettriche
di sorrisi non ancora smarriti.

A mia madre Maria Grazia

Dalla “Postfazione” di Alfredo Rienzi

L’ALTROVE DELLA PAROLA

In quest’ultima tappa del suo percorso poetico, Stefano Vitale prosegue l’insistita esplorazione del mondo e del proprio esserci, del divenire in esso e del nominarlo.
Il titolo, schietto e icastico al tempo stesso, confessa come l’azione di avvicinamento all’antinomico qui, l’assedio al centro, il pienamente dimorarsi in esso, restino ancora una volta, «sempre», vani o quantomeno provvisori e parziali. Per quanto inseguita, indagata, a volte subita, la strada verso la città perfetta non si lascia possedere fino in fondo, si oppone, così che un «altrove» (o una miriade di altrove) resti meta sconsolata e confine, ma per il poeta – che questa ricerca sa essere il suo compito – anche nuovo punto di partenza….

                           

                          

Stefano Vitale (1958), nato a Palermo, vive e lavora a Torino.

Nel 2003 ha pubblicato (con Bertrand Chavaroche e Andy Kraft) la plaquette Double Face (Ed. Palais d’Hiver, Gradingnan, Francia), nel 2005 Viaggio in Sicilia (Libro Italiano, Ragusa) e Semplici Esseri (Manni Editore, Lecce). Per le Edizioni Joker ha pubblicato Le stagioni dell’istante (Prefazione di Mauro Ferrari, 2005) e La traversata della notte (Prefazione di Giorgio Luzzi , 2007). Quindi Il retro delle cose nel 2012 con Puntoacapo Edizioni (Prefazione di Gabriella Sica) e nel 2013 per PaolaGribaudoEditore la raccolta di poesie “Angeli” con illustrazioni di Albertina Bollati. Nel 2015 ha curato (con Maria Antonietta Maccioccu) la raccolta di poesie Mal’amore no edito da SeNonOraQuando. Nel 2016 ha partecipato alla mostra del pittore Ezio Gribaudo La figura a nudo con una plaquette di 24 poesie pubblicate in mostra e nel catalogo. Nel 2017 ha pubblicato presso l’editore La Vita Felice la raccolta La saggezza degli ubriachi e nel 2019 Incerto confine (con illustrazioni di Albertina Bollati e prefazione di Vittorio Bo) per PaolaGribaudo Editore, Torino. Nel 2021 ha pubblicato Il colore dei gatti per Ventura Edizioni, 12 filastrocche per bambini, con illustrazioni di Albertina Bollati.
Le sue poesie ed i suoi libri hanno ricevuto riconoscimenti in numerosi premi, ed è presente in molte riviste, blog e antologie. Sue poesie tratte da La saggezza degli ubriachi e da Incerto confine sono tradotte in inglese sul Journal of Italian Translation (2019 e 2020) e sul sito Italian Poetry (2018). E’ presente in Ossigeno Nascente. Atlante dei poeti contemporanei sul portale di letteratura griseldaonline dell’Università di Bologna oltre che sul sito internazionale Italian Poetry diretto da Paolo Ruffilli.
Direttore Artistico dell’Associazione Amici dell’Orchestra Sinfonica della Rai., giornalista pubblicista, scrive su www.ilgiornalaccio.net occupandosi delle rubriche critiche dei libri di saggistica e letteratura, curando la rubrica “Oggetti smarriti” dedicata alla poesia.

Gianni Ruscio

15 Maggio 2021

 

 

dalla prefazione di Sonia Caporossi

Questo libro parla di un progressivo recupero del senso delle cose di fronte all’ammanco abominevole del significato che emerge dalla superficie scabrosa dell’interiorità. Questo libro volge la propria indagine in direzione del fondale silenzioso e atarassico della natura dell’essere umano quando è posta in dubbio e messa alla prova dal male, dalla malattia mentale e dalla perdita di ragione. Si tratta di un testo elaborato come un poemetto a interruzione continua/alternata, in cui il vuoto si affaccia continuamente al solo fine di essere riempito dell’essenza stessa del vivere, giacché è rivissuto in una presa di distanza, in un passato trascorrente e attualizzato. Il vuoto è la dimensione che permette all’io poetante di darsi in pasto alla comprensione del lettore, come esserci che deve essere riempito di senso. In questo nuovo libro di Gianni Ruscio, in parte autobiografico com’è ormai abitudine dell’autore, l’io si offre nel gioco indefinito del linguaggio perpetuamente individuato sul bilico dell’a-sensatezza che recupera un filo logico nel riconoscimento dell’altro, “nel vuoto, quel vuoto tutto senso, / quel senso tutto racchiuso nella pienezza /del tuo volto, sfuggente ed arreso.

 

Lo spazio tra me
e l’altro. Lo spazio
vuoto, il vuoto centrale
e ricolmo di nulla
tra l’altro e me stesso.
Da quella fessura passa
ci attraversa, come corrente
come vento, il linguaggio.
Strutturati e dilaniati
dal discorso che ci ingloba
e ci tempesta, siamo
un’assenza, un mancato,
un sintomo velato, uno stare
senza risveglio, una rivelazione
inerme,
uno svelamento incompiuto,
pezzi, stralci, segmenti
rimescolati e impastati
con la luce nera dell’anima nostra.

 

Dalle vene alle scale si è seccato
il tuo esperimento
come le casse di un’impresa.
C’è ressa agli sportelli dei bancomat.
Noi siamo rimasti addosso
al muro delle poste di Viale Pantelleria,
per osservare
le sassate nella notte, le file di persone
spaccate, affrante, confuse dal Covid.
13Rigurgitano ancora sangue
le valigie di casa. Esce e non senti
che da queste vene innevate
non possono ancora, le labbra,
scandire il tuo nome.

 

Immediato, improvviso
un’eco diretta, un ecco secco,
un adesso.
Un rimosso, dal letto alla finestra
senza nessun detto
rimuginando qualche scarto,
si arrampica e si sventola
come salma sotto mare
a ridosso di una spiaggia

 

Da sempre, perso, il fiato,
che immerse la tua luce
nel vuoto, quel vuoto tutto senso,
quel senso tutto racchiuso nella pienezza
del tuo volto, sfuggente ed arreso. Ridi
fai pure
vai, ridi e scappa, tocca, lecca
separa, batti, rinuncia, stacca
la lingua dallo specchio,
e solca il diaframma. Gettati
a petali
sotto il faro Tiberino:
resta inerme;
io te ne prego, non andare alle sirene.
Disarmati. Disarmati.
Prova. Non farti ormeggiare
dai farmaci…

 

Dalla tua mano si discioglie
lo stomaco, nella bocca.
Appari nauseato dal bacio dell’aria
sul tuo crollo.
Sei penetrato nell’universo parallelo
da cui un altro ti abita.
Vuole riportarti al di qua
o tenerti di là, mozzato. C’è qualcosa di spietato
o di disumanamente compassionevole, castrato.
Salti in aria, poco prima di romperti.
Ora vorrei solo pacificare il respiro,
il tuo respiro.
Diventare complice di un sussurro
indistruttibile e amico.
Ma non sempre funziona.
Un sussurro

 

Porti le tue scintille verso il campo di calcio
per farne la conta e giocarci a nascondino.
Sei tra i tuoi numeri e quelli dello spazio.
Scindi la cenere che cade dai tuoi occhi
e resti a guardare il miracolo compiuto
del tramonto. Fissato e labile.
Spargi così il tuo corpo calpestato
dalle nuvole in rovina
fino all’alba – disconnessa.
Ti raggomitoli sul tuo fianco
mentre parli di cose
che tu solo senti in cielo e in terra,
nel tuo letto disgraziato.

 

Vieni con me, sotto le impalcature di queste finestre
dei primi del novecento. Qui le suore
si slacciavano di nascosto le vesti
verso un commosso rantolo di preghiera:
Ave Maria, gratia plena –
in un rosario madreperlaceo.

 

Gianni Ruscio è nato a Roma nel 1984. È musicoterapista all’Antennina 00100, comunità diurna e residenziale per adulti e minori autistici con disagio psicosociale. Ha pubblicato le raccolte di poesie Amore è l’errore (2008), Nostra Opera è mescolare intimità (Tempo al Libro 2011), Hai bussato? (Aler Ego 2015), Respira (Ensemble 2016), Interioranna (Algra 2017), Proliferazioni (Eretica 2017). Attualmente è redattore della rivista Inverso – giornale di poesia.

 

 

 

Ursprunglichen Leben

5 luglio 2018

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 poesia e pittura in dialogo
Martina Dalla Stella, Silvia Secco e Claudia Zironi

 

Due donne, anzi tre sì, tre amiche che celebrano il fatto di essere tali con un libro che quando  lo si chiude non si sa  se ti abbia toccato più Claudia per la concretezza che le fa scrivere “ non basta dare il nome / alla rose, Silvia, esse/ devono avere consistenza/ e aspetto al cospetto/del pensiero, la rosa sta nel nome/ esistendo pensata quando/ nome e rosa insieme/ si sostanziano, quando/ anche la rosa a te pensa //, oppure Silvia che vuole sottolineare la sua fragilità qui : “  Occorre dire alla rosa che è rossa/Chiamare ROSA la rosa. L’intera/ rosa. E la rosa sfogliata, il petalo chiuso nel libro/ una memoria del tatto, l’odore/ scampato al gelo, lo stele reciso/ all’altezza del nodo. Non termina/ mai l’essere rosa l’ultimo lembo/ rimasto a sfioritura e non è rosa/ già il seme della rosa ? Vedi, cose/ così come questa mutano/ se ne muti una sola consonante,/ e una c fa comune il nome proprio./ Nella distrazione la rosa smette “// o anche la pittrice Martina che nei suoi quadri stende talvolta velature sottili come ragnatele, come quando ritrae gli “ alchechengi “, o sa rendere tutta la tensione dell’attesa quando dipinge una lunga fila di uccelli sopra un filo nel quadro “ aspettando per migrare “, ed aggiunge a titolo esplicativo di un sé timorosamente nascosto “ anch’io così “.

 

Tre donne giovani che dichiarano fin dall’inizio, dall’esergo del loro lavoro,- citando un verso del poeta Frost che dice- “ due strade divergevano in un bosco ed io-/ io presi la meno battuta/ e questo ha fatto tutta la differenza//  che sanno ove vogliono dirigersi e lo fanno bene questo viaggio poetico che ci parla del loro modo di porsi nel mondo in cui vivono e viviamo.

 

Parlano di sé, dei propri desideri, delle loro passioni, anche le più dolenti come fa Silvia in questa sua : “ Senti come vengo a chiedere. Come/ti chiamo : mani e nome. Che sai/ montare alta, marea e piena, allagare/. Guarda come mi riduci: fradicia e/ bellissima, come mai sono stata./ Toccami lì dov’è la ferita e lì/ entra/, slabbra e straziami che sai/ dei brividi in agguato sulle scale/ dei lividi che poi dovrò coprire/ quando te ne andrai e dovrò sorriderne./ Scavami e trova. Le dita di chi ama/ si sfiorano sul libri e sotto i tavoli/ e tu lo sai che sono scalza e nuda/ davanti a te come davanti al mare//, ma anche Claudia si metta a nudo in questa sofferente : “  L’acqua cade sempre su altra/ acqua, seppure in altra forma/ e non si chiede il tempo// Sarò prima di te ombra, quando/ starai seduto davanti a casa/in attesa del tramonto. Ti coprirò/ i piedi come capelli, le ginocchia/ come accucciandomi. Porterò/ una nuvola di pioggia dall’oriente/umida e calda di monsone, profumata/ di zenzero e vaniglia. Risalirò / le cosce tue/ alle venti e trenta della sera.// Saprà poi l’acqua come amarti.//.

 

Ma non è il loro soltanto un canto autocelebrativo, dentro il loro scrivere è anche forte l’attenzione al decadimento della nostra umanità, l’ esserci ridotti come pietre su cui, scrive Claudia “ si era evoluta una ben strana razza “ che “ non poteva volare “ ed era “ dall’intelligenza non ben orientata “ in un tempo in cui “ ciascuno si credeva migliore degli altri“, e conclude la Zironi “ il nostro silenzio li annientò. A nome di tutte le pietre/ ancora oggi ce ne dispiace “. Ma pure la Secco non nutre molta fiducia nel nostro futuro quando scrive : “ Le anziane madri -le mani sul ventre/ che ha custodito- hanno nozione/ del tempo. Ci cantano all’orecchio/ che ne avremo, da morte, per riposare/ la quiete concessa finalmente/ la coerenza dell’ultima parola/ fissata nell’eternità, quando saremo pietre/ purissimi diamanti, e non avremo pietà/ di nessuno. Allora, senza gli occhi, senza l’opinione/ saremo trasparenti esseri di perfezione./ Sceglieranno per noi i fiori delle spose. Poi/ dopo le cerimonie, ci dimenticheranno .//

 

E saremo dimenticati anche noi umani, pietre inutili e aride per colpa dell’indifferenza al male che contraddistingue questa nostra storia recente, piena di sofferenza urlata ma inascoltata, ricca soltanto del nostro silenzio colpevole nei confronti dei tanti che ci chiedono accoglienza.

Ecco cosa scrive Claudia : “ tutti in fila/come bambini/.Tutti in fila/ come a scuola/. Fate i bravi soldatini !/ Mettetevi i fila per la marcia/. Alla fermata/ ben educati/ tutti quanti formate la fila/. Tutti in fila sulla banchina/ uomini e sogni/ nei sacchi di plastica “,  e aggiunge Silvia sulla stessa pagina :
“ dove il mare arriva siamo in tredici/ fradici a guardare tredici paia/ di piedi nel fuoruscire dai sacchi/ sacchi di sogni e di sale/ sabbia nei tredici sacchi/ sabbia e sale e l’acqua in luogo dell’aria/ a riempire i polmoni. E i piedi/ tredici paia : / trattati somatici adatti alla platea / dei telegiornali. Tredici paia/ uguali in tutto e per tutto al mio paio/ da lontano da dove li guardiamo/ scordarsi dei passi, annerire./ Degli ultimi tredici passi/ chi ci verrà a dire ? E dei nomi ? / Tredici nomi gridati, pianti/ pensati, gridati nomi affidati/ a un dio in tutto e per tutto uguale/ al mio: come lui sordo, dove il mare/ giunge ed aggiunge al tredici al totale.//

 

Ci si allontana da questo libro con il piacere di aver fatto ancora una volta un incontro fortunato con queste due poetesse che in molte  altre occasioni hanno già dimostrato tutta la loro bravura, ma resta un poco di amaro in bocca per la sottile vena di tristezza che sta alla base di quasi tutti i  loro pezzi, ed anche gli oli di Marina Della Stella ci lanciano unghiate dolorose tutte condensate in un volto di madre  ritratto superbamente alla maniera della migliore pittura espressionista.

 

Non mi resta che aggiungere il mio apprezzamento per la veste tipografica del libro, originale per la sua dimensione orizzontale anziché verticale come comunemente si fanno i libri, per i colori che sembrano aderenti in modo perfetto ai quadri, e per il gusto nella scelta delle poesie messe in lista.

Luigi Paraboschi 26.6.2018

 

 

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Silvia Secco e Claudia Zironi condividono da anni la rappresentazione delle loro singolarità artistiche. Il recente progetto di poesia in dialogo, Ursprunglichen Leben, è scaturito da esperienze di recital comuni che si sono tenuti nel 2017 a Messina e a Ercolano e nel 2018 a Vicenza. Le poesie di Claudia e Silvia dialogano tra di loro in sequenze multivoce, ripetizioni, silenzi, toccando temi filosofici, civili e amorosi. I versi sono accompagnati e scanditi dalle esecuzioni musicali di giovani artisti. Durante il recital viene coinvolto anche il senso della vista, mediante la proiezione dei dipinti di Martina Dalla Stella, con la quale le poete da tempo collaborano, che si unisce al “dialogo” in modo assolutamente pregnante. Dal progetto del recital è nato un “libretto di sala”, questo vero e proprio piccolo libro d’arte, firmato Edizionifolli, che raccoglie i testi di Silvia e Claudia ed è illustrato a colori con i dipinti di Martina.